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Ad accompagnare la decisione del presidente Joe Biden di limitare l’export di materiale tecnologico alla Cina, c’è una notizia del Wall Street Journal. Da un’esclusiva del quotidiano statunitense, è emerso infatti che la China Academy of Engineering Physics (Caep), il principale istituto di ricerca sul nucleare cinese, sotto sanzioni americane dal 1997 per via delle sue attività sull’atomica, abbia acquisito dal 2020 microchip avanzati prodotti negli Stati Uniti, come Intel e Nvidia. Lo avrebbe fatto più di dieci volte, stando ai documenti visti dal Wsj, confermando i timori di Washington su come il suo know-how possa finire nelle mani delle persone sbagliate, per obiettivi decisamente preoccupanti.

Molti microchip erano di dimensione tra i 7 e i 14 nanometri, che sono difficili da riprodurre su larga scala per gli scienziati cinesi. Tuttavia, come ha sottolineato Nvidia, sono facilmente recuperabili. Non solo su Taobao, uno dei più grandi mercati di e-commerce cinesi, ma anche attraverso semplici pc. Di conseguenza, tenerne traccia è pressoché impossibile. A non essere inclusi nella lista, invece, ci sono i microchip prodotti dalle aziende americane negli ultimi due anni. Lo stesso periodo di tempo da quando Biden si è insediato alla Casa Bianca.

La politica del presidente democratico nei confronti della Cina non è mai cambiata: dialogo sì, ma allo stesso tempo fermezza laddove sono in ballo i principi fondanti dell’America. Questi microchip, in effetti, venivano acquistati tramite intermediari in Cina per far sì che la Caep se ne servisse. Come, ad esempio, per lo studio della fluidodinamica computazionale, che comprende anche lo sviluppo delle esplosioni nucleari. Con una Cina che punta a un notevole ampliamento delle sue testate atomiche nel giro di un decennio, la questione è delicata. Ma, allo stesso tempo, già affrontata. Sulla scia americana si sono uniti anche Paesi Bassi e Giappone, convinti da Biden.

La notizia dei chip “atomici” consente due riflessioni. La prima, forse banale, sulla facilità di aggirare le sanzioni. Un esempio concreto e lampante è la Russia, isolata ma non fino in fondo. Prima le ragioni di Nvidia, poi quelle di Intel (che sostiene di aver rispettato tutti i divieti) rendono la vicenda ancor più arzigogolata. “È incredibilmente difficile far rispettare le restrizioni”, ha affermato Kevin Wolf, un ex alto funzionario del Dipartimento del Commercio, oggi avvocato specializzato in commercio internazionale. Pechino potrebbe infatti trovare i chip in giro per il mondo, attraverso società di comodo e agenti terzi riesce a mistificare le sue operazioni e, quindi, a sfuggire alle sanzioni. Certo, una cosa è una manciata di chip per un singolo istituto di ricerca, un’altra sono le centinaia di migliaia di componenti che servono per mandare avanti intere industrie, decisamente più difficili da acquistare in barba agli embarghi.

La seconda riguarda in particolare la Cina. Dopo ventisei anni dall’inizio delle restrizioni, la Caep si vede costretta ancora a fare affidamento sulle tecnologie occidentali. Il che implica una superiorità americana che resta notevole (da aggiungere all’alleanza con Taiwan, molto più felice di esportare i suoi semiconduttori verso Washington piuttosto che Pechino) e le inaspettate lacune della Cina, che fa fatica a sostituire gli strumenti tech che provengono dagli altri mercati. Ne ha ancora bisogno, finché non trova la sua strada.

A fine dicembre scorso, per sopperire alle mancanze derivanti dalle restrizioni di Biden, il governo cinese stava pensando di stanziare un pacchetto da 143 miliardi di dollari da destinare all’industria dei semiconduttori. L’intento è rafforzare il settore nei prossimi cinque anni, visto che la sfida geopolitica del prossimo futuro si gioca sui nanometri dei chip. Che Pechino dovrà realizzarsi da sola, nonostante finora sia riuscita a cavarsela anche davanti ai divieti.

Quei chip "nucleari" con cui la Cina aggirava l'embargo

Finito nella lista nera degli Stati Uniti dal 1997, l’istituto di ricerca sul nucleare cinese ha utilizzato microchip statunitensi per decine di volte, nonostante Washington e le restrizioni all’export. Sfuggire alle sanzioni non è impossibile, ma dimostra quanto Pechino abbia bisogno del know-how occidentale, e che in 26 anni non ha voluto o non è riuscita a crearsi una filiera propria

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