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Quando mi è capitato di ascoltarlo l’ultima volta, nove mesi fa a New York all’Annual Awards Dinner dell’Appeal of Conscience Foundation, non mi sorprese che Henry Kissinger continuasse a insistere sul tema della leadership. E non tanto perché aveva appena pubblicato per Penguin il suo bel libro su Konrad Adenauer, Margaret Thatcher, Anwar Sadat, Charles de Gaulle, Richard Nixon e Lee Kuan Yew (Leadership. Six Studies in World Strategy) – che sarebbe poi uscito anche in Italia per Mondadori. Quanto perché la riflessione sulla leadership attraversa l’intera sua opera di teorico della politica (dai tempi di Nuclear Weapons and Foreign Politics del 1957) e di consigliere dei (vari) principi coi quali ha collaborato. Nel discorso di encomio del presidente Mario Draghi, che riceveva in quella occasione il premio World Statesman, Kissinger spiegava: “Nei tempi che viviamo, i dirigenti devono decidere come portare il proprio Paese o la propria struttura, da dove oggi si trovano, verso un luogo dove non sono mai stati. Sono perciò necessarie elevate competenze tecniche, ma anche coraggio e visione. Coraggio, poiché i leader devono muoversi su strade non ancora note eppure necessarie. E visione, per gestire la relazione tra ciò che si sta sviluppando e le necessità degli individui”.

Negli ultimi anni, da quando Kissinger ha dismesso gli abiti professionali del consigliere e si è dedicato prevalentemente allo studio e alla scrittura, l’urgenza di una teoria della leadership si è in lui rinnovata di significati contingenti e di senso generale. Non in astratto, dunque, ma in relazione all’epoca di transizione che stiamo vivendo. Come altri, e nondimeno in modo assai peculiare – kissingeriano, possiamo ormai dire – il vecchio consigliere ha raccontato, esaminandola, la fase di passaggio che interessa tutti e tutti, oggi, interroga. Nonostante sia un figlio del Novecento, è riuscito a calarsi e quasi a sentirsi a suo agio nell’incessante inquietudine del primo ventennio del nuovo secolo. Non solo ha riconosciuto il conflitto tra Stati Uniti e Cina come il sistema di tensione fondamentale del villaggio globale, ma ha anche analizzato gli altri sistemi tensivi che agitano e impegnano le relazioni internazionali e le dinamiche geopolitiche e geoeconomiche. Con la laicità che è propria del suo approccio e con un’ottica più avalutativa di altre adottate in passato, Kissinger ha descritto la situazione del mondo. E, con il Charles Dickens del Racconto di due città, lo ha fotografato nell’atto di attraversare il suo “tempo migliore e quello peggiore, la stagione della saggezza e quella della follia, l’epoca della fede e quella dell’incredulità, la primavera della speranza e l’inverno della disperazione”.

In Kissinger la centralità della riflessione sulla leadership emerge proprio in ragione della situazione transitoria dell’ordine mondiale. L’azione degli individui, difatti, condiziona il corso degli eventi più nelle fasi storiche meno consolidate, che in quelle a equilibrio stabile e perdurante. Tucidide ha insegnato a tutti i realisti che sarebbero venuti dopo di lui, quindi anche a Kissinger, che la storia è fatta dalla necessità, dal caso e dai fattori umani. Questi ultimi diventano prevalenti nelle fasi conclusive di un’epoca umana, quando la necessità di un ordine storico svigorisce e, di conseguenza, il caso non sa più su quali regole necessarie esercitare le proprie eccezioni. E siccome la leadership è il fattore umano per eccellenza, Kissinger le dedica i suoi sforzi intellettuali negli ultimi suoi studi e interventi. Una leadership creativa e audace, l’unica capace di trasformare l’inquietudine del mondo in una bussola: una trasformazione generata più dall’autorevolezza che la leadership si conquista nel tempo, che da un imprecisato carisma misticamente ereditato.

La vera forza della leadership che fa la storia e resta nella memoria è, così, la sua autorevolezza riconosciuta. Solo il leader o la leader che gode della stima dei seguaci può aiutarli, come scrive Kissinger nel suo ultimo libro, “ad arrivare, da dove si trovano, a dove non sono mai stati e, a volte, a malapena riescono a immaginare di andare”. C’è un episodio, legato agli incontri di Kissinger con Adenauer, che deve aver molto colpito il consigliere centenario, perché oltre a ricordalo nel capitolo del suo ultimo libro dedicato allo statista tedesco, era già comparso in Diplomacy (1994). In un incontro avvenuto negli anni Cinquanta, dopo un po’ che discutevano degli attributi della leadership, cogliendo Adenauer che probabilmente lui e Kissinger stavano discorrendo di cose diverse, così lo rimproverò: “Non facciamo confusione tra energia e forza!”. Agli energici sforzi dei narcisisti in servizio permanente ed effettivo, Adenauer richiamava il giovane Kissinger alla gravità della leadership forgiata dalle prove del tempo e dalle fatiche della storia. Una lezione che resterà impressa nel consigliere più famoso del Novecento e ancora oggi anima le sue più recenti meditazioni.

La lezione di Adenauer a Kissinger sulla leadership. Scrive Funiciello

“Non facciamo confusione tra energia e forza!”, disse Adenauer al giovane Kissinger richiamandolo alla gravità della leadership forgiata dalle prove del tempo e dalle fatiche della storia. Una lezione che resterà impressa nel consigliere più famoso del Novecento e ancora oggi anima le sue più recenti meditazioni. L’intervento di Antonio Funiciello, head of identity management di Eni, già capo degli staff dei presidenti del Consiglio Mario Draghi e Paolo Gentiloni

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