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I prezzi del petrolio sono balzati del 3% la mattina di martedì 29 novembre, nella speranze di un allentamento dei rigidi controlli cinesi sul Covid conseguenti alle rare proteste nelle città cinesi durante il fine settimana. “I futures corrono augurandoci che qualcosa cambi, e qualche segnale lo abbiamo già fiutato”, spiega in modo riservato una fonte dal mondo finanziario.

Ma non c’è niente di sicuro: ossia non è per niente detto che il Partito Comunista Cinese decida di accettare le istanze di chi protesta e di concedere l’allentamento delle misure restrittive su cui ha investito parte della propria immagine, narrando la propria efficienza nella risposta all’epidemia. Soprattutto è tutt’altro che sicuro che deciderà di farlo adesso, dopo che i lockdown generali erano stati trasformati in forme più puntuali e specifiche settimane fa, accettando (anche se non pubblicamente) il malcontento montante.

L’allentamento, sebbene molto parziale e molto diverso da quello che si vede ad altre latitudini, si è portato dietro un aumento di casi e nuove restrizioni. È il caso di fare qualcosa di più adesso? I lockdown però significano un rallentamento dei consumi e mentre i funzionari della sanità cinese dichiarano che il Paese intende accelerare le vaccinazioni per gli anziani, con l’obiettivo di superare un ostacolo fondamentale negli sforzi per alleggerire le impopolari restrizioni “Covid Zero”, gli operatori finanziari puntano sula prospettiva di un rapido ritorno alla normalità.

In un’economia che muove le più grandi commesse di importazione di petrolio al mondo, quegli annunci sulle nuove campagne di vaccinazioni (che per essere efficienti dovrebbero essere effettuate con sieri occidentali, ma ci sono i soliti problemi di proprietà intellettuale) sono stati sufficienti a far balzare i prezzi del greggio e produrre un primo rimbalzo significativo delle ultime due settimane. Il valore del petrolio è stato sostenuto anche dalla possibilità che i principali produttori possano modificare i loro piani di produzione, con gli analisti di Eurasia Group che lunedì hanno suggerito che l’indebolimento della domanda cinese potrebbe indurre un ulterioretaglio della produzione.

L’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (Opec) e i suoi alleati, guidati dalla Russia, riuniranno il sistema di dialogo decisionale Opec+ la prossima riunione il 4 dicembre. L’organizzazione ha iniziato a ridurre il proprio obiettivo di produzione di 2 milioni di barili al giorno (bpd) a novembre. Una scelta spinta dal principale produttore, l’Arabia Saudita, e pensata per sostenere i prezzi.

I mercati stanno valutando anche l’impatto delle incombenti nuove misure sanzionatorie che l’Unione europea avvierà contro il petrolio russo dal 5 dicembre. I diplomatici del Gruppo dei Sette (G7) e dell’Unione Europea hanno anche discusso di un price cap tra i 65 e i 70 dollari al barile, con l’obiettivo di limitare le entrate che Mosca potrebbe utilizzare per finanziare l’offensiva militare in Ucraina.

L’Ue non è ancora riuscita a trovare un accordo sul tetto massimo, con la Polonia che ha insistito per fissarlo a un livello inferiore a quello proposto dal G7. Il punto sta nel non sensibilizzare troppo le dinamiche di mercato, né tanto meno gli attori chiave diversi dalla Russia, mentre si procede col sanzionate Vladimir Putin.

Tanto più se i consumi cinesi restano altalenanti e i casi di Covid in città chiave come Shangai o Pechino crescono. Tutto mentre si prevede una maggiore quantità di petrolio russo sul mercato, l’inflazione corre, l’economia europea non prende slancio. Dall’Opec, dopo che il Wall Street Journal aveva fatto uscire un’informazione a proposito di un nuovo aumento delle produzioni, subito smentita da sauditi ed emiratini, sostengono che qualsiasi decisione terrà conto delle “condizioni di mercato”. Ed è logico che davanti a quel quadro complesso, l’organizzazione consideri in modo relativo le pressioni americane sull’aumento dei quantitativi prodotti.

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