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Lo studio della Banca d’Italia secondo il quale l’impiego dei fondi del Pnrr avrebbe attivato sinora una maggiore domanda per le aziende del Nord rispetto a quelle del Sud non deve in alcun modo stupire. È probabile infatti – ma servirebbero analisi molto accurate sui singoli settori e le aziende delle due ripartizioni territoriali realmente interessate alle forniture generate da quei fondi – che i prodotti delle imprese settentrionali siano risultati più competitivi per prezzi, quantità e tempi di consegna agli utenti finali.

Ma a nostro avviso sarebbe un errore ritenere che ciò possa essere interpretato come l’ennesima occasione mancata per la crescita dell’Italia meridionale, così come sarebbe altrettanto sbagliato coltivare l’illusione che i fondi del Pnrr destinabili per il 40% al Mezzogiorno – insieme a quelli strutturali per le aree svantaggiate per il periodo 2021-2027 e al FSC–Fondo sviluppo e coesione – possano essere lo strumento per azzerare il divario fra il Meridione e il Nord, che peraltro lo scrivente ritiene debba essere considerato distinto dal Centro Italia, dal momento che da anni ormai il Pil dell’Italia meridionale supera quello dell’area centrale del nostro Paese.

Perché lo si afferma rasentando una possibile accusa di eresia antimeridionalistica da parte del Sinedrio dei meridionalisti d’antan?

Perché – ma lo si ripete per l’ennesima volta – il Mezzogiorno presenta ormai da tempo al suo interno a livello regionale e anche sub regionale profonde diversificazioni di sviluppo, crescita, Pil e occupazione. E pertanto bisognerà verificare accuratamente come l’impiego delle risorse rivenienti dalle varie fonti prima ricordate – là dove risultino acquisite con la partecipazione ai relativi bandi, o ben distribuite al loro interno dalle otto Regioni secondo assi di sviluppo precisi e selezionati e non impiegate a pioggia – incida realmente sulla crescita delle varie zone del Sud, sulla sua grande agricoltura, sul suo già robusto apparato industriale e sul vasto comparto dei servizi fra i quali spiccano quelli destinati alla domanda turistica.

Ora, è del tutto evidente che le ingenti risorse poste a disposizione almeno potenzialmente in ragione del 40% da parte del Pnrr, e sicuramente dai Fondi strutturali e del FSC sono preziosissime per lo sviluppo per un arco temporale anche prolungato di tante aree dell’Italia meridionale: ma che quello sviluppo possa essere sufficientemente risolutivo ai fini dell’azzeramento del divario Nord-Sud è francamente illusorio, se non cambieranno in profondità, sia pure con processi sociali “tettonici” di medio e lungo periodo, i comportamenti, le scelte e le capacità operative delle classi dirigenti allargate dell’Italia meridionale. Non possono esserci più alibi dietro i quali ci si è nascosti per decenni, e tuttora ci si nasconde, in molte zone per non affrontare e sciogliere (una volta per sempre) nodi di varia natura che pure sarebbero risolubili a livello locale.

Insomma, a parere di chi scrive, è giunto il momento di avviare una grande “operazione verità” nel Mezzogiorno, sulle sue reali strutture produttive, sulle sue enormi risorse naturali, sulle capacità effettive dell’imprenditoria meridionale di valorizzarle sino in fondo con aziende sempre più competitive, sulla qualità degli amministratori e sul mondo della ricerca universitaria che presenta ancora persistenti separatezze dalle esigenze produttive, arroccandosi in logiche autoreferenziali tipiche di vecchi baronati accademici.

Lo spazio di questo articolo non consente di dilungarsi, ma alcuni esempi di ciò che vogliamo dire dobbiamo pure indicarli. Per cominciare, si pensi alle enormi risorse naturali di cui dispone il Sud in termini di ventosità on e off-shore, periodi di insolazione, di giacimenti di petrolio, gas e geotermici e di collocazione geografica al centro del Mediterraneo che lo rende hub naturale di gasdotti ed elettrodotti transnazionali. A fronte di queste sterminate risorse ogni giorno si continuano a registrare in certe zone irriducibili opposizioni di estremisti dell’ambientalismo al loro impiego. Dobbiamo ancora ricordare l’opposizione per anni al gasdotto Tap nel Basso Salento? Si pensi inoltre ai giganteschi investimenti previsti nei tanti parchi eolici off-shore floating progettati al largo delle coste del Meridione, dal Gargano alla Sardegna occidentale, e alle crescenti resistenze che stanno incontrando (almeno sino ad oggi) fra gli ambientalisti locali e anche in diverse amministrazioni comunali.

E che dire poi della conclamata volontà dell’estremismo ecologista e dell’amministrazione comunale che vorrebbe imporre a Taranto la chiusura dell’intero siderurgico, o almeno la dismissione coatta dell’area a caldo dell’Acciaieria che è la più grande fabbrica manifatturiera d’Italia per numero di addetti diretti, pari a 8.165 unità, cui devono aggiungersi circa 5.000 occupati nella sua supply chain?

Ma, passando ad altri settori produttivi e partendo dall’agricoltura, pur avendo quella del Sud enormi quantità di derrate strategiche – cereali, legumi, olive, uve, ortaggi, etc. – e pur essendovi già numerose OP-Organizzazioni di produttori che ne coltivano masse di rilievo con fatturati spesso ragguardevoli, non si riesce ancora a costituire fra di esse soggetti aziendali pari per dimensioni a cooperative emiliano-romagnole, lombarde o venete. Perché? Per indisponibilità a volte dei loro gruppi dirigenti a cedere piccole posizioni di potere personale, ovvero presidenze, vicepresidenze, presenze in consigli di amministrazione e collegi sindacali, ecc. E così arrivano i big player del Nord o dall’estero a porre spesso in filiera, ma sotto la loro guida, le maggiori OP locali.

Eguale discorso vale per le centinaia di Pmi meridionali che – come è emerso da una grande ricerca curata di recente dalla SRM del Gruppo Intesa Sanpaolo e dal Cesdim-Centro Studi e documentazione sull’industria nel Mezzogiorno di cui il sottoscritto è coordinatore scientifico – in tanti poli dall’Abruzzo alla Sardegna sono punti di forza nei rispettivi territori, alimentandovi innumerevoli fermenti di dinamismo aziendale con forti proiezioni anche all’estero. Ma quando si propone a questi ottimi imprenditori l’aggregazione in consorzi, reti di impresa, associazioni temporanee per affrontare con maggiori masse critiche di offerta la domanda interna ed estera, prevalgono ancora irriducibili forme di individualismo che rallentano purtroppo l’enorme crescita (almeno potenziale) di tanti territori.

E last but non least il turismo. L’Italia meridionale ha risorse paesaggistiche e storiche ritenute dai grandi tour operator internazionali ineguagliabili. Ma nonostante i grandi progressi compiuti negli ultimi anni in termini di arrivi e presenze, tuttavia per mancanza (fra l’altro) di offerte di accoglienza a basso prezzo per grandi numeri di turisti nei mesi invernali – quelli nordici, ad esempio svernerebbero nel Sud – e di itinerari storico-culturali interregionali – quelli a suo tempo ipotizzati dalla Cassa per il Mezzogiorno – tante località del Sud non riescono ancora a raggiungere le presenze di Ibiza in Spagna.

Sono solo alcuni esempi – e non abbiamo toccato il vastissimo campo delle Pubbliche amministrazioni meridionali in tutte le loro molteplici articolazioni – che vogliono rendere l’idea di come il Sud, indipendentemente dalle risorse pubbliche di cui può disporre, perda occasioni forse irripetibili per avviarsi a ridurre, sino ad azzerarlo, il divario con Nord.

Allora, se ne può discutere ad ogni livello con onestà intellettuale e rigore analitico – ma solo per aiutare a superare i ritardi indicati, e non per agitarli a puri fini polemici – senza incorrere in accuse di antimeridionalismo preconcetto? Chi scrive è un meridionale nato a Bari, da genitori pugliesi e che vi ha studiato e vi lavora da 50 anni.

 

infocamere, mezzogiorno, industria, sud

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È giunto il momento di avviare una grande “operazione verità” nel Mezzogiorno, sulle sue reali strutture produttive, sulle sue enormi risorse naturali, sulle capacità effettive dell’imprenditoria meridionale di valorizzarle sino in fondo con aziende sempre più competitive, sulla qualità degli amministratori e sul mondo della ricerca universitaria che presenta ancora persistenti separatezze dalle esigenze produttive. L’intervento di Federico Pirro, Cesdim, Università degli Studi di Bari Aldo Moro

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