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Il percorso di transizione ecologica, calato nel contesto della ripresa post Covid-19 e della crisi dei mercati dell’energia, ha svelato tutta la sua dimensione tecnologica e industriale. I colli di bottiglia sperimentati lungo le catene globali di fornitura, la pressione inflazionistica scatenata dai prezzi delle materie prime e dei prodotti energetici, l’evidente concentrazione degli approvvigionamenti di risorse fondamentali rendono palese la necessità di rafforzare una capacità produttiva autonoma e la sicurezza e la diversificazione dell’import dalle filiere strategiche.

Con il “Green Deal Industrial Plan for the Net-Zero Age”, comunicato mercoledì scorso dalla Commissione (per fine marzo sono attesi i provvedimenti legislativi), l’Unione europea risponde all’Inflation Reduction Act di marca USA. In realtà la competizione sulle catene del valore dell’energia coinvolge tutti i maggiori attori globali. Il Giappone ha lanciato il suo “Green Transformation Programme” da 140 miliardi di euro, l’India il “Production Linked Incentive Scheme” per incoraggiare la produzione di pannelli fotovoltaici e batterie, la Cina, ça va sans dire, rappresenta un terzo della spesa mondiale nella transizione ecologica, è la principale factory delle tecnologie a bassa emissione di carbonio ed è impegnata per conseguire (e anche superare) gli obiettivi del suo piano quinquennale.

Ovviamente l’Europa non parte da zero. Il pilastro verde dei Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza, irrobustito nel quadro di REPowerEU, garantisce centinaia di miliardi di euro di fondi. Allo stesso modo ci sono da considerare i finanziamenti della politica di coesione. Parte consistente delle misure nel campo delle energie verdi è, inoltre, costituita dalle politiche di incentivo alle rinnovabili o all’acquisto di tecnologie elettriche. Nel 2020 nell’Unione europea sono stati stanziati circa 81 miliardi di sussidi alle fonti rinnovabili. Inoltre, se l’Inflation Reduction Act statunitense garantirà 7.500 dollari per l’acquisto di veicoli elettrici, nell’UE già si registra un incentivo medio non lontano, pari a 6.500 dollari.

C’è, tuttavia, il rischio (invero già verificatosi negli anni dei grandi incentivi al fotovoltaico) che questi sussidi alimentino l’ampliamento di nuovi mercati, ma che a beneficiarne siano altri. Si stima, infatti, che se saranno mantenuti gli impegni climatici annunciati, il mercato globale delle principali tecnologie green possa attestarsi a un valore di 650 miliardi di dollari entro il 2030, più di tre volte il livello corrente. Similmente, più che raddoppierebbero i posti di lavoro, arrivando a quasi 14 milioni entro il 2030 (rispetto ai 6 milioni odierni), di cui oltre la metà nei settori del fotovoltaico, dell’eolico, dei veicoli elettrici e delle pompe di calore. Si tratta, quindi, di industrie in ragguardevole sviluppo, ma che si presentano oggi molto concentrate a livello globale. Per la fabbricazione di tecnologie eoliche, di moduli fotovoltaici, elettrolizzatori e pompe di calore, i tre Stati maggiori produttori rappresentano quote di mercato pari ad almeno il 70%. La Cina è leader in ognuno di questi. Metà dei pannelli fotovoltaici prodotti in Cina è esportato, perlopiù nell’Unione europea e nell’Asia Pacifico. Nello specifico, il 98% dei moduli impiegati nell’UE è di fabbricazione cinese.

Il gigante asiatico costituisce anche il 60% della manifattura mondiale di componenti per le turbine eoliche e metà dell’export. L’UE importa altresì dalla Cina circa un quarto delle batterie per auto elettriche. Molte di queste tecnologie hanno sperimentato nel 2022 un aumento significativo dei costi, dopo anni di declino, legato alla crescita dei prezzi di materie prime e minerali critici, di cui sono ugualmente noti gli indici di concentrazione della capacità di estrazione e raffinazione sullo scenario globale. Si presenta anche un pericolo di deindustrializzazione dell’UE a favore di altre regioni. Si pensi ai produttori europei dell’automotive che producono in Cina autoveicoli elettrici per il mercato UE, con impatti negativi sulla catena di fornitura e le imprese dell’indotto.

Per questo il Green Deal Industrial Plan, con la varietà degli strumenti che metterà a disposizione (dai finanziamenti alle semplificazioni, dal rafforzamento delle competenze al potenziamento della cooperazione internazionale e commerciale), è funzionale ad evitare il rischio che, alla dipendenza dai fornitori di combustibili, si sostituisca una spiccata vulnerabilità industriale e tecnologica. Unito alle azioni sul lato dell’altra grande trasformazione, quella digitale, finalizzate a costruire una filiera di produzione dei semiconduttori che rappresenti il 20% del mercato globale, si intende così coniugare le ambizioni delle transizioni gemelle con la creazione di occupazione e competitività del tessuto industriale.

Rimane, ciononostante, il nodo delle risorse economiche. La Commissione intende accrescere gli investimenti verdi in particolare rilassando le norme sugli aiuti di Stato. A questo fine, è stato messo in consultazione un “Temporary Crisis and Transition Framework”, che sostituirà il quadro temporaneo di crisi sugli aiuti di Stato introdotto dopo l’invasione dell’Ucraina, e resterà in vigore fino alla fine del 2025. Sarà possibile, in questo modo, concedere sussidi alle tecnologie meno mature senza ricorrere a procedure competitive e, in generale, sostenere il settore clean tech beneficiando di massimali più elevati e di varie semplificazioni. Tuttavia, un piano di investimenti fondato solo sulla possibilità di accrescere il volume degli aiuti di Stato comporterebbe la creazione di marcate disparità all’interno dell’Unione. Già oggi, ad esempio, si segnala come, dei 670 miliardi circa di sussidi approvati secondo il quadro temporaneo di crisi, più della metà sia stato impegnato dalla Germania e un quarto dalla Francia. L’Italia costituisce, invece, una quota del 7%. Un’iniziativa basata solo sulla previsione di flessibilità rispetto alla normativa sugli aiuti di Stato rischia di avvantaggiare esclusivamente i Paesi che dispongono di un idoneo spazio fiscale. Al contrario, c’è necessità di assicurare un’adeguata disponibilità di capitali in maniera diffusa, con un’attenzione particolare alle regioni che più necessitano di opportunità industriali.

A questo fine, la Commissione immagina di orientare i 225 miliardi di euro di prestiti del Recovery and Resilience Facility a cui gli Stati non hanno attinto, e i 5,4 miliardi dei finanziamenti per contrastare gli effetti della Brexit. Ci sono poi i 20 miliardi che il REPowerEU ha portato in dote allo strumento di ripresa e resilienza. Altri fondi dovrebbero provenire dalla Banca europea per gli investimenti, dal programma InvestEU e dal Fondo per l’innovazione, oltre che dalla finanza privata. In aggiunta, nell’ambito della revisione del quadro finanziario pluriennale prima dell’estate, la Commissione proporrà una Fondo per la sovranità europea, al fine di “dare una risposta strutturale al fabbisogno di investimento”. C’è la necessità, quindi, di procedere rapidamente all’attivazione di queste ulteriori fonti comuni di finanziamento, allo scopo di coinvolgere pienamente gli Stati membri nelle sfide dell’industrializzazione verde e fare in modo che gli obiettivi del Green Deal Industrial Plan non siano solo una buona intenzione.

Green Deal Industrial Plan, servono più fondi per la transizione ecologica. Scrive Masulli

Di Michele Masulli

Il piano presentato a Bruxelles, con la varietà degli strumenti che metterà a disposizione (dai finanziamenti alle semplificazioni, dal rafforzamento delle competenze al potenziamento della cooperazione internazionale e commerciale), serve a evitare il rischio che, alla dipendenza dai fornitori di combustibili, si sostituisca una spiccata vulnerabilità industriale e tecnologica. L’approfondimento del direttore area Energia di I-Com, Istituto per la Competitività

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