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Non è mai stata una passeggiata il cammino dei liberali italiani. Persino un gigante come Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861) dovette fronteggiare, nella sua area politica, radicali e proto-dorotei adusi a rendergli complicata la vita (politica). Successivamente, sarà il dualismo tra i big più in vista a scandire la storia del liberalismo nazionale. Persino tra Benedetto Croce (1866-1952) e Luigi Einaudi (1874-1961), i due mostri sacri della genealogia liberale, non saranno sempre rose e fiori. Basti pensare alla nota dissonanza tra i due prestigiosi intellettuali sui concetti di liberalismo e liberismo. Sul piano più squisitamente politico, Giovanni Giolitti (1842-1928) e Antonio Salandra (1853-1931) esprimeranno la rivalità classica tra le due anime liberali: progressista quella giolittiana, conservatrice quella salandrina. Un tipo di rivalità che proseguirà nel secondo dopoguerra, sia all’interno del partito liberale propriamente detto, sia tra il Pli, specie sotto la segreteria di Giovanni Malagodi (1904-1991), e il Pri (Partito repubblicano italiano) guidato da Ugo La Malfa (1903-1979), anch’esso facente parte, nell’Europarlamento, del gruppo liberale.

Anche in passato, le incompatibilità caratteriali e le ambizioni personali non erano estranee ai contrasti interni e alle lotte correntizie per la leadership culturale e politica. Ma in passato, i contrasti tra i liberali non vertevano solo sulla carta d’identità del capo, ma si fondavano innanzitutto sulla linea politica, sulle scelte programmatiche. I liberali di sinistra non demonizzavano l’intervento pubblico in economia e non scuotevano la testa davanti alla parola solidarietà. I liberali di destra diffidavano sempre del ruolo dello Stato in economia e temevano che la socialità sfociasse in spreco di risorse. I liberali di sinistra osannavano la Teoria Generale dell’economista John Maynard Keynes (1883-1946) e le sue ricette protese a sostenere i consumi e a ricorrere al deficit spending. I liberali di destra controbattevano con i testi, pro risparmio e pro rigore di bilancio, di Friedrich von Hayek (1899-1992) e Milton Friedman (1912-2006), per citare gli ultimi due classici della biblioteca liberista.

Idem per le alleanze. I liberali di sinistra, spesso definiti lib-lab, puntavano a un percorso comune con i socialisti democratici, nel solco già arato da Gaetano Salvemini (1873-1957) e, più tardi, da Norberto Bobbio (1909-2004). I liberali di destra rifuggivano questa prospettiva, ipotizzando intese solo con le forze democratiche di centro e di destra. Insomma, i liberali di ieri litigavano molto, anche se i consensi elettorali si assottigliavano ad ogni appuntamento con le urne. Ma litigavano molto – bisogna riconoscerlo – su temi percepibili e su questioni per nulla secondarie.

Oggi, direbbe Leonardo Sciascia (1921-1989), non si capisce. Non si capisce perché litigano. O meglio: si capisce benissimo. Litigano solo per stabilire chi comanda. Punto. Carlo Calenda e Matteo Renzi la pensano alla stessa maniera sul 99% dei problemi concreti nazionali e sulle soluzioni necessarie per risolverli, eppure si scambiano offese così feroci da far impallidire, per aggressività verbale, gli scontri tra Josif Stalin (1878-1953) e Lev Trockij (1879-1940), i duellanti più irriducibili del secolo scorso. Calenda e Renzi litigano solo per il bastone del potere, accomunati e spinti da un egocentrismo siderale, che finisce per oscurare il resto di ogni cosa che li riguardi. Qualcuno potrà osservare, non senza ragione, che i due non sono liberali doc, provenendo entrambi da un’altra sponda ideologica e politica. Ok. Ma da anni sia Renzi sia Calenda andavano ripetendo, ogni giorno, che intendevano costruire un robusto polo liberale e riformista e che non erano disposti ad arretrare di un millimetro nel viaggio verso questo traguardo (salvo poi, come è accaduto, sfasciare la carovana per il contrasto su chi la deve pilotare). E comunque, il polo costituito da Azione e Italia Viva era e rimane (non si sa fino a quando) una formazione che si è sempre dichiarata liberale, col retropensiero di ereditare i consensi elettorali di un’altra forza di orientamento liberale, come Forza Italia.

Ora, la clamorosa rottura tra Calenda e Renzi, che solo un inverosimile colpo di scena degno della più fertile fantapolitica potrebbe ricucire, ripropone con virulenza una domanda già posta, con discrezione, nei decenni trascorsi: ha senso in Italia cercare di costruire la casa dei liberali quando la storia dimostra che la rissosità e i dualismi nei partiti liberali italiani sono così frequenti e duraturi da rendere impossibile la coesistenza di più galli in un pollaio, con buona pace di tutti i propositi iniziali e, di conseguenza, con buona pace di tutte le aspirazioni elettorali, peraltro frustrate di anno in anno? Non sarebbe meglio puntare a rafforzare, ad allargare la presenza liberale all’interno degli altri schieramenti o delle altre singole comunità partitiche? Non è facile dare una risposta, anche perché non si sa quanto potrebbe essere agibile e agevole l’ingresso di una cellula liberale in un organismo che liberale non è. Ma dal momento che il liberalismo non può essere circoscritto all’esperienza di una sigla politica, visto che esso è innanzitutto un metodo, un atteggiamento, allora il discorso cambia. Allora, di fronte all’impraticabilità del campo autodefinitosi liberale, non resta che l’opzione B, ossia prendere atto dell’impossibilità di costruire un edificio espressamente liberale e smistare i mattoni liberali in tutti gli altri complessi circostanti. Il che non sarebbe una novità. La stessa grande Dc degasperiana non era altro che un partito cattolico liberale di massa. Alcide De Gasperi (1881-1954) era il primo tra i cattolici liberali, seguito da Attilio Piccioni (1892-1976), Giuseppe Pella (1902-1981), Guido Gonella (1905-1982) e molti altri. Lo stesso Luigi Sturzo (1871-1959) era un liberale, forse il più rigoroso di tutti.

Si obietterà che, oggi, l’operazione entrista delle idee liberali in altri agglomerati politici risulterebbe di gran lunga più ardua, alla luce dell’alto livello di populismo diffuso nelle comunità parlamentari di destra e sinistra. Può darsi. Ma lo spettacolo di una conflittualità permanente dentro una casetta politica sempre più piccina è così deprimente da scoraggiare la concessione di qualsiasi supplemento di fiducia. Meglio imboccare altre vie per non disperdere del tutto quel poco che resta dell’eredità liberale in Italia. E poi, come dicevano i latini, ad impossibilia nemo tenetur. Nessuno è tenuto alle cose impossibili.

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