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Il 2023 ripropone per i Paesi dell’Unione europea scenari di sicurezza non certo tranquillizzanti: la penetrazione nel Parlamento europeo delle azioni di influenza illecita svolte da Qatar e Marocco; il perdurare dell’aggressione russa all’Ucraina, che non lascia ancora intravedere possibili vie d’uscita; la parallela attività dello spionaggio russo, del quale continuano a emergere casi su casi; la metodica e instancabile campagna di acquisizioni da parte cinese di aziende di rilievo strategico e ricche di tecnologia; il recente allarme per il possibile uso da parte dello stesso governo cinese (a fini di Intelligence e di condizionamento delle opinioni pubbliche europee) dell’enorme quantità di dati personali raccolti da Tik Tok e, infine, il terrorismo di matrice islamista, tutt’altro che debellato.

Salta agli occhi come – eccezion fatta per la vicenda riguardante il Parlamento dell’Unione europea, scoppiata poche settimane fa come un fulmine a ciel sereno – tutte le altre criticità ora ricordate non siano certo nuove: i governi continentali le seguono da tempo. Si tratta, al contrario, di questioni ben note, nei confronti delle quali si sono però registrate nei diversi Paesi differenti valutazioni quanto all’intensità della minaccia. Sulle colonne di Checkpoint Charlie abbiamo già ricordato questo problema, sottolineando come costituisca l’aspetto cruciale dello Strategic compass. Nessun Paese europeo è in grado, da solo, di muoversi con sufficiente efficacia negli scenari attuali. Ecco perché la dimensione dei fenomeni e la rilevanza degli attori dovrebbero indurre tutti gli Stati membri a concludere rapidamente che la messa a punto e, soprattutto, il concreto sviluppo di azioni comuni e coordinate sono l’unica via per elevare i livelli di sicurezza comuni e, in una certa misura, anche per tutelare meglio diversi interessi nazionali.

Nel frattempo, è probabile che in questo travagliato inizio d’anno molti Stati si stiano chiedendo cosa fare nell’immediato, puntando sulle sole risorse nazionali. Lo dovrebbe di certo fare l’Italia, uscita dalle elezioni dello scorso settembre con un governo e un Parlamento nuovi di zecca e quindi con qualche dazio da pagare all’inesperienza, soprattutto in una materia complessa come la sicurezza nazionale, ma anche con una maggioranza sufficientemente ampia e stabile che consente di impostare quelle politiche di medio-lungo periodo, che proprio nel delicato settore della sicurezza danno i frutti migliori. Lo strumento istituzionale a disposizione del governo per affrontare le complesse questioni di cui abbiamo ora discusso è il Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica (Cisr) presieduto dal presidente del Consiglio e composto dall’Autorità delegata (che si occupa non solo di Intelligence ma anche di sicurezza cibernetica) e da sette ministri (Esteri, Interno, Difesa, Giustizia, Economia e Finanze, Imprese, Transizione ecologica). Il Cisr ha il compito di definire gli indirizzi generali e gli obiettivi fondamentali della politica di informazione del governo, e può essere convocato dal presidente del Consiglio in caso di crisi che coinvolgano aspetti di sicurezza nazionale, anche di natura cibernetica.

Il Comitato è probabilmente la meno sperimentata tra tutte le innovazioni istituzionali introdotte dalla riforma del 2007, ma nonostante ciò il legislatore ha in più occasioni ampliato le sue attribuzioni, facendone il perno collegiale del sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica. A volte le riforme istituzionali più efficaci si fanno utilizzando al meglio le norme esistenti. Provare per credere.

Sicurezza nazionale, ripartiamo dal Cisr. La proposta del prefetto Soi

A volte le riforme istituzionali più efficaci si fanno utilizzando al meglio le norme esistenti. Vale anche per la gestione dei più delicati dossier internazionali, scrive il prefetto Adriano Soi, docente di Intelligence e sicurezza nazionale presso la Scuola di Scienze politiche “Cesare Alfieri” di Firenze, nella rubrica “Checkpoint Charlie” sull’ultimo numero della rivista “Airpress”

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