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Si usa dire che le sanzioni sono una spada senza manico. Ferisce sia l’aggressore sia chi la impugna. Dopo molti mesi di estenuanti negoziati, è stato raggiunto un accordo da parte del G7 e dell’Unione europea di mettere un tetto al prezzo del petrolio russo. Da domani, 5 dicembre, nessuna società che ha sede negli Stati che hanno aderito al tetto potrò acquistare il barile a più di 60 dollari e il divieto è esteso anche agli armatori proprietari delle flotte petroliere e alle società di assicurazioni.

È stata una decisione sofferta (e forse tardiva). Da un lato la Polonia ha fino a ieri posto il veto (all’interno dell’Unione europea le sanzioni devono essere decise all’unanimità) alle differenti proposte perché voleva un tetto molto basso. Dall’altro permaneva la preoccupazione che un tetto potesse far schizzare il prezzo del barile versando benzina (è proprio il caso di dirlo) sul fuoco mondiale dell’inflazione, tema che è al centro delle politiche monetarie di tutti i governatori delle banche centrali. Ciò spiega l’atteggiamento prudente di molti Paesi adottato fino a ieri. Far male alla Russia senza al contempo nuocere alle economie occidentali.

Di per sé, il solo fatto che si sia trovato un accordo è una buona notizia in quanto dimostra come la maggior parte della comunità internazionale sia coesa nel condannare l’invasione dell’Ucraina e trovare soluzioni che permettano di frenare il flusso di denaro che serve al presidente russo Vladimir Putin per finanziare la guerra. Si calcola che per ogni dollaro in meno del prezzo del barile la Russia perda, come mancato incasso, 2 miliardi di dollari.

Ma sarà efficace? È indubbio che si è perso molto tempo. L’aumento del prezzo del greggio ha permesso a Mosca di avere un avanzo del bilancio statale di quest’anno di circa 280 miliardi di dollari.

Il fatto che il divieto di commerciare il barile a un prezzo superiore a 60 dollari sia stato esteso ad armatori e società di assicurazioni è indubbiamente una buona mossa dal momento che la quasi totalità di questi settori è in mano a britannici, europei e americani.

Vi sono però anche molte ombre. Produrre ed esportare un barile di petrolio in Russia ha un costo che varia tra i 20 e i 45 dollari. Le società petrolifere russe hanno esportato nel 2022 una media di 44 milioni di tonnellate di petrolio alla settimana (una tonnellata equivale a 6841 barili). Insomma a 60 dollari, il profitto è immenso. Nell’ottobre di quest’anno, l’export russo di idrocarburi ha portato nelle casse russe 700 milioni di dollari al giorno (dei quali più della metà proviene dalla vendita di petrolio).

In secondo luogo, il petrolio degli Urali era già venduto a una cifra molto vicina a 60 dollari. Dunque price cap e prezzo di mercato sono al momento allineati.

Vi è poi da considerare la posizione di Cina e India che non hanno aderito all’accordo. Sono liberi di importare a qualsiasi prezzo (certo avranno qualche difficolta’ a trovare petroliere e ad assicurarle). In novembre la Cina ha importato dalla Russia 1,8 milioni di barili al giorno e l’India 1 milione al giorno.

Dobbiamo inoltre considerare le possibili contromosse di Putin. Potrebbe rifiutarsi di vendere al prezzo imposto. Il prezzo del barile schizzerebbe. La Russia venderebbe meno barili ma a un prezzo molto più alto.

Vi è, infine, un’ultima considerazione. Tutti gli studenti di legge sanno cosa sono i “decreti catenaccio” che sono quelle norme nel settore finanziario emanate all’improvviso per evitare speculazioni o elusioni. La comunità internazionale discute dell’oil price cap da maggio. Trader, importatori e attori vari del settore del petrolio hanno avuto tutto il tempo di prepararsi e di studiare le alternative. Insomma, come dicono gli inglesi a proposito di regali fatti da un fidanzato per riparare a un errore, la mossa del tetto al prezzo rischia di essere “too little too late”.

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