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Sull’Ucraina, il presidente statunitense Donald Trump sembra essere convinto a seguire la linea dura. Tre giorni dopo il diverbio che ha visto coinvolti Trump e il suo vice-presidente J.D. Vance da una parte e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky dall’altra, l’inquilino della Casa Bianca ha pubblicato sul social di sua proprietà, Truth, un post in cui torna a criticare il leader ucraino per alcune delle sue dichiarazioni successive al loro rendez-vous. A scatenare la reazione del Tycoon sono state le parole pronunciate da Zelensky a Londra (dove si trovava per un meeting con i partner europei dell’Ucraina, i quali mantengono un approccio molto più caldo nei confronti di Kyiv) sul fatto che la fine del conflitto con la Russia sia ancora “molto, molto lontana”. Trump ha definito la dichiarazione di Zelensky la peggiore che potesse essere fatta, aggiungendo che “l’America non lo sopporterà ancora per molto!”. Parole che si sono tradotte presto in fatti concreti.

Secondo una fonte della Casa Bianca, che ha parlato in anonimato, l’amministrazione statunitense avrebbe bloccato ogni tipo di sostegno, militare ma non solo, all’Ucraina. “Il presidente Trump ha detto chiaramente di essere concentrato sulla pace. Abbiamo bisogno che anche i nostri partner si impegnino per questo obiettivo. Stiamo facendo una pausa e rivedendo i nostri aiuti per garantire che contribuiscano a una soluzione”, sono le parole esatte del funzionario. L’ordine riguarderebbe armi e munizioni in preparazione e su ordinazione, per un valora totale di più di un miliardo di dollari. La decisione sarebbe scaturita da una serie di riunioni tenutesi lunedì alla Casa Bianca tra il presidente Trump e i suoi consiglieri di sicurezza nazionale di alto livello, ha dichiarato il funzionario, aggiungendo che la direttiva sarà in vigore fino a quando Trump non stabilirà che l’Ucraina ha dimostrato un impegno in buona fede nei negoziati di pace con Mosca.

Commenti sulla dichiarazione non sono arrivati né dalla Casa Bianca né dal Pentagono sul lato Usa, mentre da parte ucraina a reagire per primo è stato Oleksandr Merezhko, capo del comitato per gli affari esteri del parlamento ucraino, affermando che Trump stia “spingendo verso la capitolazione” l’Ucraina. Toni simili sono stati utilizzati anche da Benjamin Haddad, viceministro francese per l’Europa, secondo cui “la sospensione delle armi all’Ucraina ha reso la pace “più lontana, perché non fa altro che rafforzare la mano dell’aggressore sul terreno, che è la Russia”.

Né dalle parole di Trump, né da quelle del funzionario, emergono le possibili mosse che Zelensky e la leadership ucraina dovranno seguire per spingere il presidente statunitense a ritirare quello che sembra essere a tutti gli effetti un vero e proprio ultimatum. Ma è possibile intuire alcuni dei fattori chiave per uscire dall’impasse.

Uno di questi è strettamente legato alla figura del presidente statunitense, e riguarda la “questione del riconoscimento”. In occasione dello scontro verbale avvenuto nello studio ovale, a Zelensky è stata nettamente rimarcata l’assenza di gratitudine verso gli Stati Uniti e verso il presidente Trump per il loro aiuto all’Ucraina, senza il quale il Paese non avrebbe potuto disporre delle capacità che gli hanno permesso di continuare a combattere contro la Russia fino ad oggi. Il tema è spinoso: se Zelensky accettasse di prostrarsi davanti al leader americano rischierebbe di far perdere credibilità alla sua figura di strenuo combattente, segnalando così una sorta di debolezza agli altri attori interessati (dall’Europa alla Russia, fino allo stesso popolo ucraino che in seguito ai vari episodi di scontro con Trump ha fatto quadrato attorno al proprio leader). Le istituzioni di Kyiv hanno cercato quella che sembra essere una strada alternativa, con una dichiarazione rilasciata la sera di lunedì 3 marzo dalle figure apicali dell’organo legislativo di Kyiv dove viene espressa gratitudine nei confronti del presidente Trump, del Congresso e del popolo americano per quanto fatto fino ad ora, ma dove viene anche sottolineato il commitment mostrato dagli Usa (almeno fino ad ora) nella difesa della democrazia. Difficile immaginare però che Trump si possa accontentare di questa “soluzione alternativa”, cercando invece una genuflessione da parte del “nemico” Zelensky.

Un altro fattore cruciale è legato al cosiddetto “approccio transazionale” di Trump, e riguarda l’accordo sulle terre rare che doveva essere firmato proprio in occasione della visita di Zelensky alla Casa Bianca. Dopo l’escalation verbale di venerdì, il destino dell’accordo sui minerali è rimasto incerto, ma nelle scorse ore Trump ha dichiarato di non ritenere morto l’accordo sui minerali, definendolo un “grande accordo per noi”, e di aver bisogno di vedere un gesto da parte di Zelensky per riavviare i negoziati. “Penso solo che dovrebbe essere più riconoscente”, ha detto Trump ai giornalisti. Torna dunque la questione del rapporto interpersonale (un fattore che lo stesso Trump ha dichiarato contare anche nel suo rapporto col presidente russo Vladimir Putin), che però si posizione accanto alla firma non di un documento che spicca per valore declaratorio o programmatico da parte di due istituzioni, quanto di un contratto che potrebbe essere stato siglato da due attori privati in cerca del proprio interesse. E forse, è proprio dalla firma di questo contratto che Zelensky potrà riaprire il dialogo con il partner statunitense, e spingerlo a fare marcia indietro sullo stop alle armi.

Ma non è da escludere lo scenario opposto: Trump potrebbe infatti aver strumentalizzato la questione per sganciare l’accordo sui minerali dalle negoziazioni sulla fine del conflitto, condizionando la sua volontà di fornire armi all’Ucraina alla disponibilità del Cremlino di limitare le proprie richieste nelle discussioni di pace. Riducendo così ulteriormente lo spazio di manovra di Kyiv all’interno di una questione che, almeno nella visione di Trump, sembra riguardare in modo sempre più esclusivo Mosca e Washington.

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