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L’Iva, l’imposta sul valore aggiunta, grava sui consumi ed è applicabile a quasi tutti i beni e servizi acquistati e venduti per essere utilizzati o consumati nell’Ue. Anche quelli importati, a prescindere dalla loro provenienza. Oggi esiste una normativa comunitaria, ma l’applicazione specifica dell’imposta può variare però in termini di peso da un Paese europeo all’altro, comunque con un’aliquota mai inferiore al 15%. Ora, se è vero che a Washington Giorgia Meloni ha sminato il terreno, aprendo la strada a un reale negoziato tra Europa e Usa, è però altrettanto vero che la Casa Bianca ha posto condizioni precise per giungere a un accordo. E tra queste, c’è proprio l’Iva. Perché?

Questione di punti di vista. Un passo indietro. Nel giustificare la guerra commerciale contro le grandi economie globali, colpevoli di ledere gli interessi americani, Trump ha messo sotto accusa anche il sistema tributario europeo, alias le barriere commerciali ma non tariffarie. Che altro non sono che l’Iva, gli standard di qualità Ue sull’agroalimentare e la regolamentazione delle aziende dei servizi digitali, al secolo web tax. Considerando, erroneamente, in questo senso tasse come l’Iva come un dazio, in grado di contribuire cioè al disavanzo commerciale degli Stati Uniti con l’Unione europea (236 miliardi di dollari nel 2024). Ora, nell’ambito della posta messa sul tavolo da Washington per disinnescare una volta per tutte la mina dei dazi è finita, come poc’anzi detto, proprio l’Iva. Gli Stati Uniti, in sostanza, ne chiedono una revisione, perché rea di colpire tutti i beni venduti sul suolo dell’Unione, inclusi quelli importati dall’America.

La partita è delicata, perché chiama direttamente in causa un pezzo di fiscalità continentale. Una sua revisione, infatti, comporterebbe una complessa operazione di chirurgia fiscale, che impatterebbe, una volta presa la decisione a Bruxelles, su tutti i Paesi membri e i relativi conti pubblici, sponda entrate. Lo stesso vale per l’agroalimentare. Qui l’Europa ha fissato precisi standard in materia di qualità dei prodotti. Considerati dagli Usa alla stregua dell’Iva, dunque al pari di un dazio. Su questo punto, però, Bruxelles sembra essere meno morbida. Poche ore fa il portavoce dell’Ue per il Commercio, Olof Gill, ha chiarito che se “sull’Iva non vogliamo entrare nei dettagli”, sul discorso dell’agroalimentare “ci teniamo a rassicurare i cittadini europei che la loro salute non è sul tavolo della trattativa”.

Il filo rosso che lega i dazi alle tasse, non si esaurisce qui. Perché gli stessi Stati Uniti hanno messo sul piatto un altra imposta, stavolta meno operativa dell’Iva, nel senso che non tutti i Paesi l’hanno applicata. Non ancora, almeno. Ma che comunque è lì: la ormai arcinota web tax, vale a dire l’imposta sui margini dei giganti della rete attivi e presenti in Europa. E, per larga parte, americani. Non è certo un mistero che, nel mondo invisibile dove ronzano i server cloud e gli algoritmi dettano legge, i colossi della tecnologia sono da tempo nel mirino delle autorità fiscali. Oggi, sembra essere arrivati a una sorta di resa dei conti, con i governi che stanno tracciando nuove linee guida fiscali per assicurarsi che Silicon Valley, e le sue controparti globali, paghino il giusto.

Paesi come Francia, Regno Unito, India e Australia hanno introdotto tasse unilaterali, provocando reazioni a catena negli accordi multilaterali. Nel cuore dell’Europa, Parigi ha sfidato per prima i giganti digitali con una tassa del 3% sui ricavi generati sul suo territorio, applicabile alle aziende con oltre 750 milioni di euro di fatturato globale e almeno 25 milioni in Francia. Ma Bruxelles potrebbe alzare il tiro, in caso di fallimento dei negoziati. Ricorrendo all’applicazione, tout court, del Digital Act. Proprio la normativa che gli Usa vorrebbero neutralizzare.

L’Europa punterebbe, stavolta, a colpire direttamente i ricavi pubblicitari delle piattaforme digitali americane. Quando Google o Meta vendono spazi pubblicitari in Europa, una parte di questi guadagni verrebbe infatti trattenuta come tributo, creando così un sistema analogo ai dazi doganali tradizionali, ma applicato al mondo dei servizi digitali anziché alle merci fisiche. La web tax formato pubblicità è, in questo senso, una contromossa che potrebbe rivelarsi particolarmente insidiosa per Washington visto che sarebbe uniforme in tutto il mercato unico europeo e mirerebbe specificamente alla pubblicità online, che rappresenta la principale fonte di guadagno per molte di queste piattaforme.

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