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Se in gran parte dei casi avviene il contrario, ci sono piattaforme tecnologiche nate in Italia che viaggiano per il mondo e conquistano nuovi mercati. È il caso di Moova, sviluppata da Almaviva, gruppo italiano dell’innovazione digitale guidato dall’ad Marco Tripi, che conta su una rete di 25 società (tra cui la quotata Almawave) e 70 sedi in Italia e nel mondo, e dà lavoro a 45mila persone: 10 mila nel nostro Paese, 35 mila all’estero.

Uno degli elementi più interessanti è che oltre il 70% dei 974 milioni di fatturato proviene dal settore IT e nuove tecnologie. Per capire come funziona una realtà italiana in grado di competere a livello globale, ho parlato con Smeraldo Fiorentini, Direttore Generale della divisione Transportation & Logistics. Laurea in informatica, un passato tra industria e consulenza e un presente fatto di digitalizzazione dei trasporti. Che vuol dire semplificare e migliorare l’esperienza di viaggio, attraverso biglietti integrati, smart station, monitoraggio del traffico e dei flussi, semafori intelligenti, manutenzione predittiva… il tutto integrato da un sistema di intelligenza artificiale che cerca continuamente la soluzione più efficiente.

Come siete arrivati allo sviluppo di Moova?

Fino al 2015 eravamo mono-cliente e mono-tematici: lavoravamo con Ferrovie dello Stato, anche perché il mondo ferroviario è, storicamente e forse in modo sorprendente, uno dei più avanzati. In quell’anno ci siamo dati un nuovo piano industriale con l’obiettivo di essere leader non solo nel mondo ferroviario e non solo in Italia, ma in tutte le modalità di trasporto, per diventare un player internazionale.

Non una sfida facile, in un contesto dominato da big tech americane e cinesi.

Sembrava un progetto più che ambizioso, impossibile. Invece abbiamo iniziato a sviluppare Moova, e abbiamo dedicato quasi tre anni per capire dove sarebbe andata la mobilità del futuro. Abbiamo adottato le tecnologie di ultima generazione e ci siamo concentrati su tre direzioni principali: mobilità sostenibile, multimodale, as a service. Dopo un grande investimento, abbiamo iniziato a raccogliere i frutti.

In particolare, avete vinto gare con le ferrovie finlandesi e con la metropolitana di Riyad, in Arabia Saudita. Due mondi così diversi, in termini di storia, cultura, e anche sviluppo tecnologico, che è difficile vedere punti in comune.

Siamo presenti, tra gli altri, anche nel Regno Unito, uno dei mercati più liberi e competitivi nel settore dei trasporti. Vuol dire che il valore dei nostri prodotti è riconosciuto al di là della nazionalità e dei competitor locali e globali. Ci affermiamo con prodotti tutti made in Italy, dall’idea allo sviluppo fino alla realizzazione. Non è un riflesso patriottistico, pensiamo che in questa fase di transizione dobbiamo riconoscere le punte di valore che abbiamo in questo Paese, e dimostriamo che è possibile rilanciare questo settore oltre le barriere nazionali. Nonostante una forte tendenza al “buy American”, abbiamo un progetto molto importante negli Stati Uniti, di cui speriamo di parlare presto.

Quali esempi possiamo prendere dall’estero per migliorare il nostro settore dei trasporti? Penso ai problemi che hanno le merci nell’attraversare il nostro paese.

Il digitale è la chiave per garantire l’intermodalità, il passaggio morbido tra un mezzo di trasporto e l’altro, tra un porto e un’autostrada. Entra in gioco il tema delle infrastrutture fisiche del nostro Paese che, pur avendo indubbi punti di forza come i 17mila chilometri di rete ferroviaria, non riescono ancora a collegare come si deve i nodi principali (porti, aeroporti, città metropolitane, porti turistici) tra di loro, e così i nodi di ultimo miglio. È una questione di programmazione, di avere una visione integrata. La trasformazione digitale non deve riguardare solo la tecnologia, bensì nuovi modelli di business e di mentalità.

Con gli investimenti del Pnrr si riuscirà a fare questo salto?

Sicuramente c’è la possibilità di cambiare il volto dei trasporti italiani, di portare un grande beneficio alla comunità e alle imprese. Molti fondi sono destinati alle infrastrutture fisiche, meno a quelle digitali. Un punto su cui mi concentrerei è lo stabilire degli indicatori di successo: i progetti approvati hanno creato aree metropolitane più vivibili, meno trafficate, hanno dato più servizi utili ai cittadini e permesso alle merci di raggiungere in modo più efficiente i siti produttivi? Per capire se un investimento è buono bisogna valutarne gli impatti sulla vita delle persone, non basta verificare se sono stati rispettati i tempi.

Quando parlo con i manager italiani, uno dei problemi principali è la mancanza di lavoratori specializzati. Anche voi avete difficoltà a coprire posizioni? Manca una formazione mirata?

Il problema c’è ed è globale: la rivoluzione tecnologica è stata più veloce dei cicli scolastici o universitari, adattarli al mondo che cambia non è facile. Noi cerchiamo di fare la nostra parte, con tre programmi, uno al Nord, uno al Centro e uno al Sud. Siamo tra i soci fondatori del Centro nazionale per la Mobilità Sostenibile, con una sede centrale a Milano e 14 nodi distribuiti in modo capillare. Si tratta di 25 università, e relativi centri di ricerca, e 24 grandi imprese, attori protagonisti del mondo della mobilità e delle infrastrutture. A Roma abbiamo attivato la Moova Academy, un programma di formazione rivolto a studenti universitari e giovani laureati che hanno l’opportunità di entrare in Azienda, sviluppare competenze e apprendere trend di innovazione tecnologica applicate al settore della mobilità integrata e a temi attuali come le città del futuro, il trasporto green e la sicurezza dei terminal hub. Siamo anche sponsor di master della Sapienza sulle tecnologie ferroviarie. A Napoli c’è il Polo di Eccellenza Smart Mobility & Logistics, creato insieme all’Università Federico II.

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