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Si ballerà, sì, ma non al Papeete. Il gioco è un altro: la musica si accende, tutti girano intorno a una sedia, la musica si spegne. Chi rimane in piedi, perde. È il gioco a cui gioca Matteo Salvini, il leader della Lega ritrovatosi timoniere di una crisi di governo iniziata altrove.

Lo strappo dei Cinque Stelle e di Giuseppe Conte, che ha costretto questo mercoledì il premier Mario Draghi a tornare in aula al Senato per chiedere “un patto” per la fiducia, aveva gettato la palla nel campo del Carroccio, promosso a primo partito della maggioranza dopo la scissione grillina di Luigi Di Maio. Un calcio a spazzare dell’ultimo a minuto l’ha fatta rotolare indietro, da via Bellerio a via di Campo Marzio.

La giornata della resa dei conti inizia sotto cupi auspici. Il discorso di Draghi – una sferzata contro gli ultimatum dei partiti, un appello per un patto del Paese che porti il governo a fine legislatura – ha acceso la miccia in casa leghista. Salvini e i suoi non si aspettavano la sassaiola che il premier ha riversato contro il Carroccio, più che contro il Movimento. A Conte due modeste aperture, su salario minimo e reddito di cittadinanza. Al segretario della Lega una dura, indiretta reprimenda, con un sonoro stop alle rivendicazioni sui tassisti e i balneari e alle bandierine di partito, come la richiesta di uno scostamento di bilancio di 50 miliardi avanzata dai leghisti.

Quando inizia la discussione a Palazzo Madama, la strada che sembrava portare a un Draghi-bis appare ai più come un vicolo cieco. Il primo a scagliare il sasso è il veneto Massimo Bitonci. “Siamo stupiti dal discorso del presidente Draghi: nessun accenno a flat tax e pace fiscale”, inveisce. Dietro le quinte le truppe ribollono. Tra i colonnelli filtra “delusione”. “Ha dimostrato di non essere un politico”, mugugna un deputato del Nord severo con le parole del premier, “se ci insulti perché dovremmo votarti?”.

Sul discorso in aula c’era grande attesa. Perché fino alla vigilia, racconta chi è dentro, nessuna opzione è stata scartata a priori. Certo, il malumore negli ultimi giorni è cresciuto. Lunedì, durante la riunione con i parlamentari, Salvini ha esordito con un mantra ripetuto a più riprese durante la crisi: “Io la mia idea me la sono fatta, ma sono qui per sentire la vostra”. E fra la trentina di parlamentari che hanno preso la parola (inusualmente pochi, notano nel partito), c’è chi ha messo sul piatto senza giri di parole le perplessità. Come il capogruppo al Senato Massimiliano Romeo, “in questo governo non riusciamo a portare avanti i tratti caratterizzanti della nostra agenda”, la protesta.

Da giorni Salvini si è chiuso in confessionale. “Ascolta ma non commenta”, chiariscono di continuo i suoi collaboratori. Di fronte ai parlamentari, i coordinatori regionali. A Villa Grande, durante il vertice del centrodestra di governo a intermittenza ospitato da Silvio Berlusconi insieme agli alleati Maurizio Lupi, Antonio Tajani e Lorenzo Cesa. In verità, “fosse per lui, la decisione l’avrebbe presa da tempo”, dice chi è vicino al segretario. A metà giornata una nota del “Capitano” mette le mani avanti: “Nessun contatto tra Matteo Salvini e Giuseppe Conte. Il leader della Lega non vede e non sente l’ex premier da alcuni mesi”. Come a dire: se rottura sarà, non chiamatelo Papeete bis.

Il voto anticipato è un rischio ma anche un salvacondotto. Fuori dal recinto di governo, Giorgia Meloni scalpita e prepara l’all-in. Il ritorno alle urne può rivelarsi un test di verità. L’obiettivo, nelle più rosee aspettative, è recuperare il terreno perso con una campagna elettorale lampo che riporti la Lega nella fascia di gradimento pre-legislatura, intorno a quel 17% che quattro anni fa sancì il salto del progetto salviniano. E un rush verso il voto avrebbe anche ripercussioni sul fronte interno. I congressi di sezione del partito hanno preso il via nei comuni. In Lombardia, dove il malcontento verso il segretario è più accentuato, “non tira una bella aria”, riassume un deputato. Lo stallo, per un leader in cerca di rimonta, è un rischio.

Eppure fino all’ultimo minuto non c’è un’indicazione univoca dai vertici. Per smuovere le acque viene scelto Romeo, che prende la parola in aula e lancia la provocazione: serve “un governo nuovo, con a capo lei presidente Draghi, perché gli italiani hanno detto che lei deve restare”, esordisce. Ovvero, spiega una risoluzione firmata insieme a Roberto Calderoli, un governo “profondamente rinnovato sia per le scelte politiche sia nella composizione”. Cioè senza i Cinque Stelle, e comprensivo di soli quei partiti “che hanno votato a favore della fiducia” giovedì scorso, quando in aula è approdato il Dl Aiuti e la compagine grillina si è astenuta.

Eccola, la palla spazzata via, nell’altro campo. Dopo l’ultimatum di Romeo Draghi abbandona l’aula. Dalle parti del Pd c’è chi perde le speranze, “ci manda a quel paese”, riflette un membro della segreteria. Ma non tutti mollano la presa. E un sottosegretario leghista commenta divertito: “Game over? No, perché mai?”.

Salvini e i Cinque Stelle, chi perde il gioco della sedia?

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