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I francesi avrebbero detto À la guerre comme à la guerre. E forse, stavolta, il celebre motto transalpino, calza a pennello. Nel venerdì nero delle Borse europee, con la sola Piazza Affari che a tre quarti di seduta bruciava oltre 60 miliardi di capitalizzazione, arrivando a perdere il 7,9%, riportando il calendario all’11 settembre del 2001 e azzerando i guadagni del 2025, la Cina risponde a Donald Trump.

A due giorni dall’annuncio dell’amministrazione statunitense di dazi del 34% sulle importazioni cinesi, Pechino ha deciso di dissotterrare l’ascia di guerra, con una bordata di contro-dazi. La guerra commerciale alla sua massima espressione, con tutte le conseguenze del caso, dentro e fuori i listini. A Palazzo Chigi, per esempio, ormai ha preso corpo l’idea che una sospensione del Patto di stabilità, accompagnata dal congelamento del Green new deal, sia inevitabile, onde evitare il peggio, pur senza mettere in discussione l’unità dell’Europa.

Pechino, annunciato che imporrà specularmente dazi aggiuntivi del 34% su tutti i beni importati dagli Stati Uniti, a partire dal prossimo 10 aprile. In questo modo, se da una parte vendere merci cinesi negli Usa costerà molto di più, lo stesso varrà anche per quelle americane. Non è tutto. La Cina ha, inoltre, annunciato di aver inserito, già dal 4 aprile aprile, 16 aziende americane “che mettono a rischio la sua sicurezza nazionale e i suoi interessi” nella lista di controllo delle esportazioni. Stando a quanto precisato dal ministero del Commercio del Dragone, a partire da oggi l’esportazione di articoli a duplice uso da parte di queste aziende, tra cui High Point Aerotechnologies, Universal Logistics Holdings e Source Intelligence, sarà vietata, mentre tutte le attività di esportazione in corso dovranno essere immediatamente interrotte.

E che a Pechino abbiano perso la pazienza lo dimostra anche l’attacco frontale alle terre rare, per colpire l’industria americana (e occidentale) dove fa male. “In conformità con la legge sul controllo delle esportazioni della Repubblica popolare cinese e altre leggi e normative pertinenti”, afferma il ministero sul suo sito, “il 4 aprile il dicastero del Commercio, insieme all’amministrazione generale delle dogane, ha emesso un annuncio sull’attuazione di misure di controllo delle esportazioni su sette tipi di articoli medi e pesanti correlati alle terre rare, tra cui samario, gadolinio, terbio, disprosio, lutezio, scandio e ittrio, ed è stato ufficialmente implementato nella data di emissione”. 

La rappresaglia non si è esaurita qui. Se l’Europa punta ancora a un negoziato con Washington, a Pechino hanno deciso di metterla sul corpo a copro. “Stando a quanto riportato dai media cinesi, infatti, il governo ha anche sospeso l’idoneità di sei aziende degli Stati Uniti a esportare in Cina, “per salvaguardare la salute pubblica e proteggere l’industria zootecnica del paese”. E ancora, il Dragone ha presentato una denuncia presso l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) per gli ingenti dazi imposti dagli Stati Uniti sulle sue esportazioni che rappresentano “un palese atto di unilateralismo e una violazione delle regole del Wto”. Una mossa, quest’ultima, che ha incontrato la critica del vicepresidente della Camera in quota Fratelli d’Italia, Fabio Rampelli.

“Leggere che la Cina, grande motore dell’economia globale ricorra all’Organizzazione mondiale del commercio contro i dazi americani dà l’idea dell`impazzimento mondiale che caratterizza questa fase storica. Dal 2001, anno della sua integrazione, credo non abbia rispettato per un solo giorno le regole del mercato occidentale, tanto che hanno iniziato a non rispettarle in molti. Hai voglia a chiedere alla comunità internazionale di intervenire per fermare la concorrenza sleale, lo sfruttamento del lavoro minorile e femminile, i danni procurati all’ecosistema. Pioggia a dirotto. Così come avevamo ragione noi all’epoca dei fatti non credo che la Cina abbia oggi torto. L’Organizzazione mondiale del commercio non doveva tacere all`epoca e dovrebbe dare un cenno di vita oggi, altrimenti non si capisce a cosa serva. Insomma, tanto tuonò che piovve…”.

Insomma, guerra totale. E attenzione al fronte del petrolio, l’altro termometro della tensione globale. Non si arresta, ma anche anzi peggiora il tracollo delle quotazioni dell’oro nero. Le quotazioni si ritrovano ai minimi da oltre tre anni a questa parte, con il barile di Brent, il greggio di riferimento del mare del Nord crollato del 6,63% a 65,49 dollari. In preapertura New York, il West Texas Intermediate cade del 7,27% al 62,08 dollari. In due sedute le quotazioni sono cadute di circa 10 dollari. Valori che non si registravano da metà 2021, mentre l’economia globale risentiva della recessione causata da lockdown e misure imposte dai governi a motivo del Covid. Il tutto nell’ambito di massicci riposizionamenti sui mercati con gli investitori che vendono asset volatili e spostano fondi su quelli ritenuti più sicuri, come i titoli di Stato americani che hanno visto i rendimenti sulla scadenza decennale calare sotto il 4% per la prima volta da mesi.

Ma c’è un caso Bitcoin. Con le borse globali sottosopra, travolte dal ciclone-dazi, il Bitcoin resiste: la regina delle criptovalute scambiava oltre gli 82mila dollari, in rialzo dell’1% rispetto a ieri. Tuttavia, il valore dei Bitcoin è pur sempre molto lontano dagli oltre 109mila dollari toccati a gennaio proprio nei giorni in cui Trump si avviava a fare il suo ritorno alla Casa Bianca.

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