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Nel nostro Paese è diffusa la ferma convinzione che la cultura vada tutelata, sostenuta anche finanziariamente, e che la partecipazione culturale rappresenti una delle principali risorse della nostra società civile.

La cultura, in altri termini, è percepita come un oggetto socialmente desiderabile.

Da tale riconoscimento originano molteplici scelte di natura pubblica e privata: finanziamenti diretti, politiche fiscali, sponsorizzazioni ed erogazioni liberali.

Tutti questi interventi si fondano sull’assunto che il patrimonio culturale debba essere tutelato e tramandato alle future generazioni, e che la fruizione culturale abbia un valore positivo sulla nostra democrazia.

Eppure, nonostante tale valore condiviso, i dati legati alla fruizione culturale nel nostro Paese non riflettono un così forte interesse da parte degli italiani.

Ci si riferisce, in particolare, ai dati Istat, così come riportati dal Compendium of Cultural Policies and Trends, una pubblicazione, disponibile online, che compara statistiche e politiche culturali di differenti Paesi Ue e non Ue.

Si pensi che, nel 2019, su 10 italiani soltanto 2 sono andati a teatro, quasi 2 sono stati in sale da ballo, meno di 1 ha visto un concerto di musica classica, 1 e mezzo è stato in una biblioteca, più di 3 hanno visto un museo, e meno di 3 un monumento o un sito archeologico.

Questi dati sono ben noti, e spesso vengono utilizzati soprattutto in comparazione con i tassi di partecipazione di altri Paesi, ma non è questo il centro della riflessione.

Perché c’è un elemento cui, spesso, viene prestata poca attenzione, ed è la differenza, a dir poco sensibile, tra i tassi di partecipazione culturale in quei settori che godono di un importante finanziamento pubblico, e la partecipazione dei cittadini in quei settori per i quali, al contrario, il finanziamento pubblico non assume altrettanta rilevanza.

In effetti, i settori che nel compendium, vengono indicati come activities without large public subsidies, presentano invece una maggiore partecipazione. Nel 2019, ad esempio, su 10 italiani quasi la metà sono andati al cinema, 4 hanno letto un libro, più di 4 hanno ascoltato musica da un sito in streaming, 3 e mezzo hanno letto abitualmente un periodico, quasi 3 hanno giocato ai videogames, praticamente 6 hanno ascoltato abitualmente la radio e 7 hanno utilizzato abitualmente internet.

Distante da tutti è la Tv: nello stesso anno 9 persone su 10 hanno guardato la televisione in modo abituale.

Questo divario, in termini di partecipazione del pubblico, è spesso utilizzato come vera e propria ragion d’essere del finanziamento pubblico: assunto come valore condiviso che la cultura sia importante per il nostro Paese e per la nostra società, è essenziale finanziare quelle attività culturali che, senza un importante sostegno pubblico, cesserebbero probabilmente di esistere.

Questa spiegazione, per quanto condivisa, non è però l’unica possibile. Questo divario potrebbe, infatti, anche essere imputato ad una sostanziale distorsione del mercato, imputabile proprio ai sussidi di natura pubblica. Tali sussidi, secondo quest’ultima prospettiva, potrebbero rendere meno efficaci le organizzazioni, meno capaci di creare un dialogo con i cittadini, perché non dai cittadini, non dalla partecipazione deriverebbe la propria esistenza.

Non è possibile stabilire quale delle due interpretazioni della realtà riescano meglio a spiegare il fenomeno. Resta tuttavia il fatto che questo divario esiste e che debba rappresentare una priorità di equità sociale.

Perché se da un lato la tutela del patrimonio è e resta un valore condiviso del nostro Paese, è altrettanto evidente l’iniquità insita in un valore che porta a destinare ingenti investimenti a favore della classica affinché solo 1 cittadino su 10 possa assistere ad uno spettacolo durante un anno.

Questo di certo non vuol dire che tali finanziamenti vadano necessariamente eliminati.

Di certo, però, vuol dire che tali finanziamenti andrebbero spesi meglio.

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