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Un dato fondamentale sulle elezioni israeliane, che hanno ridato la maggioranza della Knesset alla coalizone di destra, riguarda l’affluenza: 71,3%. La più alta dal 2015. Per confronto, nel 2021 aveva votato il 67,4% degli aventi diritto. Ma d’altronde, tutti i partiti si sono concentrati nel chiedere ai propri elettori e in generale si cittadini israeliani di recarsi alle urne.

Secondo Giuseppe Dentice, Head del Mena Desk del CeSI, il voto ha un significato in sé: i cittadini israeliani hanno ascoltato gli appelli al voto fatti dai vari leader politici ed è chiaro che in questa mobilitazione il Likud abbia avuto più capacità di sollecitare il proprio elettorato e parte degli indecisi. Differentemente l’affluenza nei collegi abitati in maggioranza da arabi-israeliani ha probabilmente risentito delle divisioni tra i tre partiti che rappresentano questa comunità. E forse è una delle ragioni della sconfitta del centrosinistra.

Benjamin Netanyahu, storico leader governativo (il più longevo dei primi ministri israeliani) e guida ispiratrice del Likud, incassa 32 seggi. Yair Lapid, premier uscente che ha guidato un accordo di governo basato sull’essere anti-Netanyahu — e forse anche per questo la piattaforma politica è stata poco convincente durato appena 12 mesi — assicurava che “fino all’ultima busta, nulla dice che è finita”. Ma il suo partito, Yesh Atid, ha preso 24 seggi.

Non basteranno a dare alla sua coalizione la maggioranza parlamentare per formare l’esecutivo. Servono infatti 61 voti alla Knesset per governare e Netanyahu ne ha ottenuti 65. Anche se con più di un problema.

A conti fatti, la maggioranza sarà più ampia delle precedenti, ferme a 61/62, tale da poter garantire un ragionevole margine di manovra — tuttavia si parla di pochi seggi e visto i rapidi rimaneggiamenti della politica israeliana la stabilità è tutt’altro che granitica. Inoltre Netanyahu ha pendente un processo per corruzione e non è chiaro quali potrebbero essere le reazioni via via che la vicenda giudiziaria va avanti. Poi c’è la questione Itamar Ben Gvir.

Gvir è il leader del cartello elettorale formato da Potere Ebraico e dal Partito Sionista Religioso, una formazione di estrema destra — accusata da più parti di essere razzista e fascista. Ha ottenuto 15 seggi, è la terza forza politica. Ossia una componente determinante.

Gli Stati Uniti e i partner regionali israeliani come gli Emirati Arabi Uniti, hanno preventivamente messo in guardia dalle dei cananisti di Ben Gvir, le quali se dovessero diventare parte di quelle del governo, potrebbero creare problemi addirittura agli Accordi di Abramo (ossia all’intesa di normalizzazione nei rapporti tra Israele e alcuni Paesi arabi).

Cosa significa questa spinta che partiti di estrema destra hanno ricevuto dal voto degli israeliani in queste elezioni? “Netanyahu è stato bravo a coalizzare dietro di sé diverse posizioni, ma il ruolo della formazione di Ben Gvir è effettivamente preoccupante per la sua storia personale e quella di quei partiti”, risponde Dentice.

Il Partito sionista religioso e Potere ebraico portano avanti posizioni aggressivamente anti-palestinesi, identitarie, legate all’ortodossia religiosa — in uno slancio durante la campagna elettorale Ben Gvir è arrivato a supporre che Israele debba annettere l’intera Cisgiordania. “Il fatto — continua l’analista del CeSI — è che Ben Gvir ha i numeri per influenzare non solo la composizione, ma anche l’azione del governo. Ora, vero che il populismo di Netanyahu strizza l’occhio a forze anti-sistema, ma è anche vero che dovrà cercare di diluire questo ruolo dei cananisti”.

Come? “Presto per parlare, ma ci sono altre forze che appartengono al mondo della destra o centro-destra e potrebbero entrare in maggioranza, permettendo a Netanyahu di governare con le mani più libere”.

L’obiettivo potrebbe in effetti essere più concorde alle parole usate dal leader del Likud nella conferenza stampa della vittoria, in cui ha detto che nel suo modo di vedere, Israele “rispetta tutti i suoi cittadini” e per questo il suo governo si prenderà cura di tutti. In questa operazione di diluizione un ruolo potrebbe averlo Benny Gantz, ministro uscente della Difesa, leader del centrista Kahol Lavan che ha posizioni non troppo diverse da quelle del Likud. Gantz aveva giurato di non voler governare con Netanyahu, ma le cose in politica non sono mai definitive.

“La società israeliana mostra una certa preferenza per il modello populista — spiega Dentice — e anche per visioni molto conservatrici come quelle dei cananisti, che non riconoscono l’autorità dello stato nel quadro democratico per come lo intendiamo noi. E per tale ragione diventano problematiche, perché eccessivamente anti-sistema. La realtà dei fatti è che si creano dei rischi. Prendiamo per esempio temi come la questione palestinese che ha perso centralità vero: tuttavia vediamo che lo scontro tra ebrei e arabi israeliani e palestinesi è ormai all’ordine del giorno nelle città miste. Questa è la principale sfida interna per Netanyahu: evitare che gli scontri si infiammino ulteriormente, anzi cercare forme per disinnescare una situazione sociale molto tesa”.

Questo strascico riguarda fattori interni complessi, annosi e ancora irrisolti: altri temi del genere toccano il ruolo internazionale di Israele e la sua strategia. “Le posizioni di Netanyahu su certi dossier di interesse nazionale sono note, per esempio riguardo all’assertività sull’Iran. Però occorrerà vedere come si muoverà con Teheran in questa fase particolare. C’è inoltre da capire se Netanyahu darà seguito all’implementazione degli Accordi di Abramo che il suo predecessore Lapid ha cercato di dinamizzare”, spiega Dentice.

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