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Il 48esimo anniversario dell’invasione turca di Cipro, che cadrà il prossimo 20 luglio, è utile occasione per riprendere il dibattito sul possibile ingresso di Nicosia nella Nato. Certamente l’accelerazione delle molteplici crisi innescatesi prima e dopo l’invasione dell’Ucraina sta contribuendo a che il tema venga sollecitato, nel merito, con i singoli protagonisti. Sul punto non mancano però anche elementi esterni che vanno tenuti in debita considerazione: il principale di essi è il dossier energetico.

Cipro divisa

La parte settentrionale di Cipro è occupata dai turchi sin dall’invasione del 1974, attuata contro il tentativo di golpe greco, ma poi tramutatasi in occupazione forzosa. In questi quasi 50 anni tutti i simboli religiosi non musulmani, come chiese e cimiteri maroniti, ortodossi, cattolici ed ebrei nella cosiddetta Katekomena sono stati distrutti dagli occupanti. Lo stato di Cipro nord, non riconosciuto dalla Comunità internazionale proprio perché frutto di una invasione armata, si è autoproclamato ed è riconosciuto solo da Ankara.

Nicosia è entrata in Ue dopo il referendum del 2004 che diceva no a un tentativo di riunificazione che era palesemente ad appannaggio della Turchia, quanto a rivendicazioni territoriali (con vista gas) e politiche. Al problema in sé di Cipro divisa, si somma quello dell’energia dopo che le scoperte nel Mediterraneo orientale hanno tramutato i Paesi che vi si affacciano da semplici soggetti coinvolti a players assolutamente strategici di qui al prossimo secolo.

Cipro nella Nato

Alla luce di tali premesse, le crisi bellica ed energetica in atto tanto in Ucraina quanto nel resto del mondo stanno mutando consapevolezze e scenari di riferimento. I timori che circolano da anni a Cipro fanno riferimento a possibili colpi di testa del governo Erdogan, così come accaduto in occasione delle provocazioni nella città fantasma di Varosha. Per cui il dibattito sul possibile ingresso di Cipro nella Nato torna di attualità, anche come deterrente di un possibile schema-Crimea.

I motivi che spingerebbero Nicosia ad avanzare la richiesta sono essenzialmente tre. In primis offrirebbe un vantaggio in termini di reazione a una eventuale aggressione esterna. È evidente che, dal febbraio 2022 in poi, in Paesi borderline come appunto Cipro, ma anche Taiwan e le isole greche di Kastellorizo e Lesbos, occorre un rapido e efficace meccanismo di difesa collegato e coordinato con la Nato. Chi ne resta fuori rischia l’emarginazione oltre che le mire esterne, rese ancora più tese dal peso specifico dei giacimenti di gas.

Nicosia come Aleppo?

In secondo luogo, e senza scadere in una sorta di forzoso complottismo, vi sono segnali che accomunano i destini siriani di ieri e ciprioti di domani. È una possibilità, al momento, che Cipro possa facilmente trasformarsi in un ampio e geopolitico campo di battaglia tra super players, come è successo in Siria qualche anno fa. Tra le altre cose Aleppo dista appena 146 miglia dall’isola e osservando l’isola è facilmente intuibile la sua spiccata vicinanza all’Oriente più che all’Occidente del mare nostrum.

Possibile riunificazione

In terzo luogo l’adesione alla Nato potrebbe essere foriera, perché no, di una nuova veste per risolvere la grande questione di Cipro, aprendo davvero un tavolo verosimile e qualificato (al contrario degli esperimenti passati di Crans Montana) per la possibile riunificazione anche alla luce dell’importanza del dossier energetico, non più solo ad appannaggio dei Paesi mediterranei, ma di importanza strategica per tutta l’Europa.

Gli intrecci con il dossier energetico dunque rappresentano una leva fondamentale per ragionare, oggi, sull’ingresso di Nicosia nell’alleanza atlantica, anche per scongiurare eventuali azioni di pancia da parte di Ankara, già messa sotto osservazione dai servizi greci per possibili gesti ad alto rischio nelle isole dell’Egeo.

@FDepalo

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Gli intrecci con il dossier energetico rappresentano una leva fondamentale per ragionare oggi sull’ingresso di Nicosia nell’alleanza atlantica, anche per scongiurare colpi di testa di Ankara. Il commento di Francesco De Palo

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