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Oltre 80.000 persone sono state evacuate dalle aree a rischio inondazione di Pechino, mentre la capitale cinese si prepara a nuove precipitazioni, dopo che violenti nubifragi avvenuti alla fine del mese scorso hanno causato più di quaranta morti. Un’emergenza che mette (nuovamente) in luce la vulnerabilità idrogeologica di Pechino in un’epoca di cambiamenti climatici accelerati.

Circa il 70% delle precipitazioni annue cade tra giugno e agosto, con picchi a luglio. Cambiamenti agricoli e idraulici accumulatisi nei secoli hanno aumentato la vulnerabilità della città alle piogge torrenziali, con molti laghi che sono scomparsi e la vegetazione che proteggeva il suolo che è stata rimossa. L’urbanizzazione selvaggia degli ultimi quarant’anni ha aggravato la situazione, divorando le aree rurali e impermeabilizzando il terreno con cemento e asfalto. Il sistema di drenaggio, costruito in epoca sovietica e raramente aggiornato dagli anni ’80, non è in grado di far fronte all’intensificarsi degli eventi estremi. Le priorità infrastrutturali, infatti, hanno spesso privilegiato progetti d’impatto immediato rispetto all’ammodernamento delle reti fognarie.

Come conseguenza, durante l’estate, le strade della metropoli si trasformano regolarmente in fiumi/fogne a cielo aperto. Con conseguenze letali, come dimostrato già dal 2012, quando almeno 79 persone morirono in seguito a un’alluvione. Un bilancio che potrebbe essere sottostimato, considerata la difficoltà nel tracciare i lavoratori migranti, tra i più esposti e meno censiti.

Il paradosso di Pechino è evidente: soffre regolarmente per l’eccesso d’acqua, ma vive in una condizione di grave scarsità idrica. La disponibilità di acqua dolce locale pro-capite è di appena 150 metri cubi all’anno, ben al di sotto della soglia globale dei 500 metri cubi che definisce la “scarsità assoluta”. E questo calcolo si basa su una popolazione ufficiale di circa 23 milioni di abitanti, probabilmente sottostimata.

Storicamente, Pechino contava una popolazione assai più ridotta, pari a circa un milione di persone, con una disponibilità d’acqua più sostenibile. Oggi, altre città settentrionali con problemi idrici, come Hohhot in Mongolia Interna, impongono regolari restrizioni sull’uso dell’acqua. Ma a Pechino questo non avviene, a causa del peso politico ricoperto dai suoi residenti. Il fenomeno dei pozzi illegali, in particolare per rifornire centri benessere e strutture ad alto consumo, è altamente diffuso, e lo sfruttamento eccessivo degli acquiferi ha fatto crollare i livelli di falda. Invece di limitare i consumi, Pechino attinge altrove. Il più celebre esempio è il progetto di trasferimento d’acqua Sud-Nord, avviato nel 2003, che ha garantito l’approvvigionamento idrico della capitale a spese delle comunità rurali del sud, costrette a cedere le proprie risorse.

Nel frattempo si è aggiunto anche il cambiamento climatico, che ha reso eventi meteorologici una volta eccezionali sempre più frequenti. E sebbene il presidente Xi Jinping abbia promosso il concetto di “città spugna” (centri urbani capaci di assorbire, trattenere e rilasciare l’acqua piovana in modo sostenibile) i risultati sul campo restano deludenti. Le inondazioni continuano a colpire Pechino e molte altre città cinesi, mentre a sud dilagano le alluvioni e in altre aree l’abbassamento del suolo minaccia la stabilità urbana. La capitale della Repubblica Popolare, dunque, resta intrappolata tra due emergenze contrapposte ma interconnesse: troppa acqua in estate, troppo poca durante il resto dell’anno. Un paradosso che riflette le contraddizioni ambientali e infrastrutturali della Cina contemporanea.

 

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