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Oggi Roma (o meglio la residenza dell’ambasciatore omanita di Via della Camilluccia) doveva tornare a ospitare un nuovo round di negoziati tra Iran e Stati Uniti, ma l’incontro è stato rimandato per “motivi tecnici e logistici”, secondo quanto dichiarato dal ministro degli Esteri iraniano Seyed Abbas Araghchi. Siamo verso il quarto appuntamento di questo ciclo di colloqui, finora descritti come positivi e propositivi, verso la costruzione di un’intesa per gestire il programma nucleare di Teheran. Ci sono stati un primo meeting a Muscat, poi un secondo a Roma e un terzo ancora a Muscat, i cui risultati sono stati finora descritti sempre come “molto positivi”. Adesso le fonti che stanno raccontando la situazione spiegano che tutto dipende “dell’approccio degli Stati Uniti”.

Le sanzioni statunitensi contro l’Iran durante i colloqui nucleari non stanno aiutando le parti a risolvere la disputa nucleare attraverso la diplomazia, spiegano gli iraniani, che vorrebbero incassare velocemente qualcosa. Anche gli Usa puntano a tempi brevi, ma chiedono maggiori garanzie. Che l’America di Donald Trump non abbia intenzione di aspettare i tempi lunghi della diplomazia lo ha anche spiegato – in senso largo, anche se nello specifico parlando di Ucraina – la portavoce del dipartimento di Stato venerdì, che in un briefing con la stampa ha detto: “Continueremo ad aiutare, ma non voleremo in tutto il mondo per mediare ogni incontro”.

L’agenda stretta conviene a tutti, teoricamente. Ma su tutti pesa la scarsa fiducia. Il quadro è molto ampio e ora sta emergendo più nitidamente – andando oltre al valore intrinseco del riavvio dei negoziati in sé che aveva preso la cronaca e in parte sorpreso gli analisti. L’annuncio del 1° maggio da parte del presidente Trump di nuove sanzioni sul petrolio iraniano, con la minaccia di colpire chiunque lo acquisti, segna un’escalation significativa nella strategia americana verso Teheran. Le misure, se pienamente applicate, potrebbero trasformarsi in un vero e proprio embargo de facto, colpendo indirettamente anche giganti come la Cina, che secondo i dati della società di analisi Vortexa ha importato 1,8 milioni di barili al giorno di greggio iraniano nel solo mese di marzo. Sebbene Trump non abbia nominato espressamente Pechino, il messaggio implicito appare chiaro: Washington è pronta a mettere sotto pressione contemporaneamente le sue due principali sfide geopolitiche.

Il contesto è reso ancora più complesso dalla doppia linea d’approccio in cui si muove l’amministrazione Usa. Da un lato, la Casa Bianca punta a un accordo sul nucleare, inviando figure di primo piano come il super-negoziatore factotum Steve Witkoff, a dialogare con Teheran. Dall’altro, Washington continua a minacciare apertamente un’azione militare nel caso in cui i negoziati falliscano. A rafforzare il fronte coercitivo, il segretario di Stato Marco Rubio – da poco anche consigliere per la Sicurezza nazionale ad interim – ha chiesto all’Iran di abbandonare sia l’arricchimento dell’uranio che i programmi missilistici, aggiungendo che, in caso contrario, “le infrastrutture nucleari iraniane verranno distrutte”. Segue la sica il capo del Pentagono, Pete Hegseth, che due giorni fa ha rivolto un “Message to Iran” dicendo: “Vediamo il vostro LETALE supporto agli Houthi. Sappiamo esattamente cosa state facendo. Sapete benissimo di cosa è capace l’esercito americano, e siete stati avvertiti. Ne pagherete le CONSEGUENZE nel momento e nel luogo da noi scelti”.

Secondo Araghchi, l’Iran sta invece dando massima disponibilità per una soluzione negoziata che garantisca la pace e il rispetto dei diritti del paese. Questo include – stando alla sua interpretazione – il diritto, sancito dal Trattato di Non Proliferazione (NPT), a mantenere l’intero ciclo del combustibile nucleare per scopi civili. Tale posizione è però oggetto di forti critiche. Secondo Andrea Stricker, esperta di non proliferazione della Foundation for Defense of Democracies (non-profit falco con l’Iran), l’NPT non garantisce esplicitamente un diritto all’arricchimento, e l’Iran, avendo violato gli articoli II e III del trattato (che vietano lo sviluppo di capacità per armi nucleari e impongono severe salvaguardie), non può rivendicare la legittimità del proprio programma. Stricker sostiene che la comunità internazionale ha già stabilito che Teheran non è autorizzata ad avere il ciclo completo del combustibile, a differenza di altri paesi membri del trattato.

La disputa giuridica riflette una divergenza più profonda: quella tra una visione occidentale che chiede restrizioni stringenti e quella iraniana che rivendica diritti simmetrici agli altri firmatari del NPT. Araghchi ha definito “massimaliste e incendiarie” le richieste americane, sostenendo che un accordo credibile è possibile solo con volontà politica e un approccio equo.

Se questo è un problema interno al negoziati in sé, i colloqui diplomatici sono anche oggetto di forti attenzioni (e dunque interessi) esterni. La Cina osserva: le sanzioni sul petrolio si inseriscono in un contesto già teso, segnato dalle tariffe commerciali imposte da Trump e da un rapporto bilaterale logorato. Pechino ha risposto rifiutando aperture al negoziato commerciale con Washington, cercando invece sponde nell’Unione Europea. Il rischio per l’amministrazione americana è che la simultaneità dei fronti – nucleare iraniano e confronto con la Cina – produca una pressione insostenibile senza ottenere i risultati sperati. In definitiva, la strategia della “massima pressione” rischia di scontrarsi con la realtà di una diplomazia che, senza obiettivi chiari e credibili, potrebbe rivelarsi inefficace.

C’è poi un altro elemento: gli americani fanno sapere che la data (e il luogo) del quarto incontro “non erano mai stati a definiti, ed è l’Iran che ha bruciato i tempi indicandoli per sabato a Roma”. Con l’occasione, su spinta cinese (e in parte russa), Teheran aveva anche organizzato un incontro (organizzato per la sera del 2 maggio) con i rappresentati degli E3, ossia i tre paesi europei che avevano co-firmato il Jcpoa – l’accordo sul controllo del programma nucleare iraniano mediato da Ue e amministrazione Obama da cui Trump ha tirato fuori gli Stati Uniti durante il primo mandato. Gli E3 sono Francia, Germania e Regno Unito, tre alleati con cui Trump non ha feeling. L’inclusione degli europei su input cinese potrebbe aver indispettito ulteriormente gli Stati Uniti, che (per lo meno in questa fase) prediligono un approccio più diretto e bilaterale con Teheran.

Una fonte europea informata sulle discussioni assicura che un nuovo incontro ci sarà, e probabilmente anche a breve, e che si sarà anche spazio per un appuntamento con gli E3. Luogo e data sono però ancora da definire (forse sarà Roma). Una cosa è certa: il tempo per un accordo significativo si sta assottigliando.

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