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«L’Europa non nascerà di getto, come città ideale. Essa si farà; anzi si sta già facendo, pezzo per pezzo, settore per settore. L’esercito europeo segna una di queste fasi». Era il 1951 quando Robert Schuman a Parigi pronunciò queste parole nel discorso inaugurale alla Conferenza per l’organizzazione dell’esercito europeo. Il progetto è rimasto lettera morta, sicurezza e difesa sono ancora di fatto nelle mani dei singoli Stati. E il Trattato di Lisbona ha stabilito che le decisioni in materia «sono adottate dal Consiglio che delibera all’unanimità su proposta dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza o su iniziativa di uno Stato membro». Un altro freno, l’unanimità, a iniziative condivise. Un rapporto dell’Agenzia europea per la difesa ha stimato, infatti, che nel 2022 soltanto il 18% degli investimenti per la difesa degli Stati Ue era realizzato in cooperazione.

Eppure il conflitto in Ucraina scatenato dall’invasione russa ha riportato al centro dell’attenzione la questione della sicurezza come bene comune europeo, perché esistono sfide – come ci ha dimostrato la pandemia – che non si possono affrontare da soli e che richiedono di riconoscere la predominanza dell’interesse collettivo rispetto a quello nazionale. Sfide che non riguardano soltanto la sicurezza militare, ma soprattutto quella economica e sociale, insieme all’indipendenza dell’Europa. Lo abbiamo toccato con mano con l’energia e con la necessità crescente di tutelare le infrastrutture strategiche europee contro incidenti e sabotaggi. Lo vediamo con gli assalti degli Houthi alle navi commerciali nel Mar Rosso, dove passa il 40% dei traffici Asia-Europa.

Più in generale, il ricorso alla guerra ibrida, che mescola elementi convenzionali e non convenzionali, denunciato da ultimo nella Relazione annuale al Parlamento sulla politica per l’informazione per la sicurezza relativa al 2023 recentemente presentata dai vertici dei servizi segreti, esige dall’Unione europea reazioni pronte e ampi ventagli di strumenti con cui proteggersi dalle minacce. Tradizionali e cyber. Perché, come denunciato da ultimo il 19 marzo nel Rapporto Clusit 2024 dell’Associazione nazionale sicurezza informatica, l’Italia in particolare risulta molto fragile: nel 2023 ha visto un aumento del 65% dei cyberattacchi gravi andati a segno, a quota 310, ben l’11% di quelli censiti a livello globale.

Nel corso delle comunicazioni in Parlamento alla vigilia del Consiglio europeo del 21-22 marzo, che all’ordine del giorno ha proprio la strategia industriale europea della difesa e del programma europeo di investimenti nel settore, il premier Giorgia Meloni lo ha detto a chiare lettere: «Spendere in difesa significa investire nella propria autonomia, nella propria capacità di contare e decidere, nella propria possibilità di difendere al meglio i nostri interessi nazionali ed è la strada che segue qualsiasi Nazione seria, ma è la strada che deve seguire anche l’Europa se vuole essere seria». Perché – ha aggiunto – «la libertà ha un costo».

Era già tutto scritto nel Trattato di Maastricht, di cui Guido Carli da ministro del Tesoro fu negoziatore e firmatario nel 1992. Tra gli obiettivi dell’Unione elencati all’articolo 2 c’era proprio quello di «affermare la sua identità sulla scena internazionale, in particolare mediante l’attuazione di una politica estera e di sicurezza comune, ivi compresa la definizione progressiva di una politica di difesa comune, che potrebbe condurre a una difesa comune».

Le crisi e i tanti tentativi di destabilizzazione, in quadro geopolitico incerto, ci avvertono che il momento è arrivato. Per compiere il salto occorre, però, uno scatto verso una governance centrale che aiuti a superare la frammentazione delle strategie nazionali e delle politiche industriali dei diversi Stati favorendo acquisti congiunti e il ricorso a denaro comunitario. Serve, in sostanza, l’«architettura di sicurezza europea» su cui il presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha invitato a lavorare.

«Il nostro interesse di lungo periodo – scrisse Carli nel libro “Cinquant’anni di vita italiana” (Laterza), in collaborazione con Paolo Peluffo – è la costruzione di una federazione europea basata sul principio dello “Stato minimo”, tenuta unita da una politica monetaria, da una politica estera e da una difesa unitaria. Sarebbero gli Stati europei, singolarmente, in condizioni di resistere agli urti che provengono da un mondo esterno che cade in frantumi?». Una domanda profetica.

Celebreremo l’attualità della lezione dell’ex Governatore della Banca d’Italia nelle due prossime importanti ricorrenze: il 28 marzo saranno i 110 anni dalla nascita dello statista, mentre il 10 maggio il Premio a lui intitolato festeggerà il suo 15° compleanno con un’edizione straordinaria in programma all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Nel segno della fiducia in un mondo migliore, dove tradizione e innovazione possano fondersi, senza lasciare nessuno indietro, e il merito trionfare. Dove «la tutela del bene dell’interesse collettivo», che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha individuato come principale eredità di Carli, possa imporsi sugli egoismi. Anche in Europa. Pezzo per pezzo.

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