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Per gli economisti, ma anche per imprenditori e commercianti, è sempre stato considerato un secondo dazio. Meno ufficiale, più occulto rispetto alle tariffe che Donald Trump ciclicamente sventola nella famosa tabella mostrata a stampa e fotografi. Ma pur sempre un secondo collo di bottiglia: un dollaro troppo debole sull’euro che rende più costoso per gli esportatori europei piazzare la propria merce al di là dell’Atlantico. In pratica, per chi vende i propri beni sul mercato americano, ci sarà sia la tariffa aggiuntiva del 15%, frutto dell’accordo raggiunto in Scozia da Trump e Ursula von der Leyen, sia il costo più nascosto di un dollaro debole sulla moneta europea.

Eppure nelle ultime ore qualcosa è cambiato. Prima l’accordo commerciale, poi la riunione della Federal Reserve che ha lasciato invariati i tassi (mandando ancora una volta su tutte le furie il presidente americano), hanno innescato una reazione uguale e contraria. L’euro ha risposto in questi giorni con una svalutazione di oltre il 2% sul dollaro, da 1,14, da 1,17 di venerdì, anche in scia alle aspettative di visto che un’economia dell’area euro più debole e nuovi tagli dei tassi della Banca centrale europea in autunno. E pensare che da quando Trump è tornato alla Casa Bianca, poi, il dollaro ha perso infatti il 13% sulla divisa europea. Un indebolimento che riflette, da un lato, la pressione della Casa Bianca sulla stessa Fed, accusata di non abbassare abbastanza i tassi e dall’altro il clima d’incertezza che proprio le guerre commerciali scatenate da Washington contribuiscono ad alimentare.

Per Trump un dollaro debole non è un gran problema, perché rappresenta un freno naturale alle importazioni straniere, origine di quello squilibrio commerciale, alias deficit, che ha spinto il presidente americano ad aprire la seconda stagione dei dazi. Per questo un nuovo apprezzamento della moneta può avere risvolti non banali nell’ambito dello stesso accordo commerciale raggiunto tra Bruxelles e Washington. Dal momento che una dichiarazione congiunta ancora non è pervenuta, è lecito pensare che una rincorsa di lungo termine del dollaro sull’euro possa limare o meno certe spigolature dell’intesa stessa. Se la moneta americana si apprezzasse troppo, infatti, esportare negli Usa costerebbe meno e Trump potrebbe lasciare l’attuale asticella dei dazi lì dov’è. Ma se, al contrario, il dollaro si indebolisse di nuovo, allora l’Europa potrebbe reclamare un ammorbidimento delle tariffe.

Per gli analisti, tuttavia, debole o forte, il dollaro è destinato a rimanere il baricentro monetario globale, con buona pace della Cina che da anni tenta di disarcionare la valuta statunitense dal proprio trono. E su questo sono d’accordo molti economisti, che nelle ultime ore, nonostante la debolezza di questi mesi del biglietto verde, hanno ribadito la centralità della moneta americana. “È decisamente prematuro preoccuparsi che il dollaro perda lo status di valuta di riserva globale. Anche se ciò accadesse, ci vorrebbero diversi anni perché ciò succeda”, ha dichiarato Hong Cheng, responsabile della ricerca su reddito fisso e valute di Morningstar. E anche secondo Michael Pearce, vice capo economista di Oxford Economics “un cambiamento radicale in cui gli Stati Uniti perdano chiaramente il loro posto in cima alla classifica, credo sia ben lontano dall’essere realizzabile. Trovo difficile immaginare un possibile contendente al dollaro”.

Così il dollaro forte aiuterà l'Ue con i dazi

L’improvviso nuovo apprezzamento della valuta americana sull’euro, dopo mesi di debolezza, potrà a suo modo impattare sulla partita commerciale, abbassando i costi per le imprese europee. Ma una cosa è certa, per i prossimi decenni la divisa Usa rimarrà il baricentro monetario globale

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