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L’edizione online della rivista Foreign Affairs ospita questa settimana un intervento, dedicato al rapporto tra corporations e politica estera americana, a firma della leadership di Lazard, in particolare del Ceo Peter Orszag nonché del responsabile e del senior advisor della nuova pratice di Geopolitical Advisory Theodore Bunzel e Jami Miscik, entrambi con un passato ad alto livello nell’amministrazione di Washington.

Lo scritto parte dall’assunto che la variabile geopolitica ormai viene ritenuta la più importante dalla comunità economico-finanziaria globale, come dimostrato anche da recenti sondaggi condotti su ampio spettro di intervistati e dal fatto che un’istituzione come Lazard, che da più di 170 anni offre servizi di gestione del risparmio e di assistenza finanziaria alle grandi imprese di tutto il mondo, sia stata indotta negli ultimi tempi a costituire una divisione dedicata esclusivamente alla gestione del rischio geopolitico.

Ciò fa sì – aggiungiamo noi – che i tradizionali modelli di valutazione dei prezzi degli assets, elaborati principalmente nelle università americane dal Dopoguerra in poi, si dimostrano sempre più inadeguati a svolgere la loro funzione, costretti come sono a proiettare irrealistiche crescite costanti su orizzonti temporali futuri caratterizzati da una sempre maggiore imprevedibilità e volatilità. Il rischio geopolitico si configura invece quasi sempre come cigno nero e il replicare andamenti del passato sugli anni a venire risulta fuorviante.

Tuttavia, la vera novità di questi anni evidenziata da Lazard è che, mentre le frizioni a livello geopolitico durante la Guerra Fredda avevano luogo tra mondi che comunicavano e commerciavano pochissimo tra loro, nel contesto attuale le imprese occidentali che negli anni della successiva distensione avevano ampliato a dismisura la propria presenza nei mercati degli ex antagonisti si trovano ora “in mezzo alla sparatoria” e costrette a operare scelte di campo comunque rischiose e penalizzanti.

Analogamente, l’amministrazione americana non sembra essere allo stato adeguatamente equipaggiata, a meno di estendere la mano pubblica fino a stravolgere il sistema come economia di mercato, per far sì che le decisioni strategiche che adotta trovino poi rapida ed efficace applicazione ad opera di quelle imprese che necessariamente sono chiamate a porle in atto. Il rischio, che può condurre a esiti letali, è che la cinghia di trasmissione non funzioni correttamente dando così un vantaggio tattico decisivo ai rivali.

Un esempio tra i tanti che si cita è quello dei semiconduttori, dove il successo del Chips Act del dipartimento del Commercio, emanato allo scopo di rimpatriare gli investimenti nel settore per meglio controllarlo sul piano strategico, dipende solo in parte da come verranno allocati i sussidi previsti, dovendosi soprattutto tener conto della propensione al rischio di investire negli Stati Uniti da parte di soggetti privati come la taiwanese Tsmc o di acquistare processori a un prezzo maggiorato da parte di grandi clienti come Apple. Tutte scelte che essi possono anche decidere di non effettuare, diversamente dai loro omologhi russi e cinesi che si trovano nell’impossibilità di non seguire gli indirizzi strategici stabiliti dalla leadership politica.

A ben vedere, l’analisi di Lazard fa però emergere un altro aspetto importante in sede di commento. Negli Stati Uniti la sovranità è diffusa, distribuita: in altre parole, fermo restando il primato in tal senso delle istituzioni pubbliche (Presidenza, Ministeri, Congresso, Corte Suprema, Riserva Federale etc.), a farsene portatore è anche un universo di soggetti estranei al circuito istituzionale in senso stretto come ad esempio, in questo caso, le grandi imprese industriali o non. Oltre a essere diffusa, la sovranità americana è anche mobile, nel senso che può manifestarsi con maggiore o minore intensità in diversi momenti e in diverse aree del sistema. Prendendo sempre a prestito un esempio citato nel pezzo di Foreign Affairs, è indubbio che, per la funzione che svolge, Starlink è una realtà quasi pienamente sovrana, ma potrebbe cessare di esserlo qualora l’uso che fa dei propri satelliti deviasse dagli imperativi strategici di quel governo di cui risulta concessionaria.

I principali rivali degli Stati Uniti, invece, concentrano la sovranità negli organismi politici di vertice, rendendo tutte le articolazioni del sistema dei meri esecutori della volontà dei primi. Maggior coesione e velocità nell’attuare le decisioni, quindi, ma anche pericoloso accentramento delle tensioni che comunque emergono da dentro il sistema, col rischio che non trovino sfogo e finiscano per travolgere tutta la verticale del potere partendo dalla testa.

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