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Difficile fare il decoupling quando l’interdipendenza è così forte, soprattutto tra le due superpotenze globali. Ai problemi degli Stati Uniti, legati all’inflazione sulle materie prime e ai grandi rallentamenti della catena di approvvigionamento, rispondono quelli di Pechino, fortemente preoccupata per lo sviluppo delle sue auto elettriche in mancanza di chip americani. Miccia di questo mix esplosivo è stata la pandemia, che ha messo in luce le fragilità della catena mondiale, dove o tutto è incastrato a dovere oppure il rischio di un’emergenza come quella attuale è alto.

Iniziamo dalla sponda occidentale. Negli Stati Uniti, quasi metà del personale della Virgin Hyperloop è stato licenziato. Parliamo di una delle aziende più importanti nel panorama dell’altissima velocità, specializzata in tecnologia di trasporti supersonici di passeggeri e merci proprio grazie all’Hyperloop, un’alternativa al treno che utilizza tunnel vuoti, ovvero privi dell’attrito dell’aria (vacuum train, o vactrain). Un modo per ridurre drasticamente i tempi di percorrenza e il consumo di energia. La frenata, però, è arrivata con il Covid, e con i limiti della supply chain globale.

Alla base della decisione di mandare a casa 111 dipendenti, c’è la volontà dichiarata di concentrarsi su altro. L’azienda ha iniziato a proporre a porti, aeroporti e altri punti di snodo per il commercio il suo progetto pilota: creare delle capsule (o pod, per essere tecnici) che riescano a viaggiare alla velocità di 670 miglia all’ora, così da ridurre il traffico su strada e l’impatto ambientale dei trasporti. A beneficiarne sarebbe l’intera catena di approvvigionamento: più veloce, più efficiente e più sicura.

D’altronde, ha spiegato l’azienda, l’emergenza sanitaria ha imposto un drastico cambio di paradigma. Puntare sulle merci, però, non implica l’abbandono dell’idea di allargare la modalità di trasporto anche alle persone. A novembre del 2020 sono stati fatti salire sul pod due passeggeri, i primi al mondo a testarli. Al momento, però, concentrarsi su beni materiali piuttosto che su esseri umani è più facile e rappresenta un rischio inferiore.

Anche perché in molti pongono l’accento sui costi molto alti che servirebbero a portare i pod sul mercato. La DP World di Dubai, che detiene il 76% in Virgin Hyperloop, sta lavorando in questo senso per garantire una consegna merci con il nuovo modello di trasporto entro il 2024 e prevede di reinvestire i profitti per permettere anche ai cittadini di usufruirne. Mentre si cerca una soluzione economicamente fattibile, Stati e aziende corrono ai ripari.

È il caso di Tesla che, di fronte all’impennata dei prezzi sulle materie prime, per le batterie delle sue auto elettriche ha deciso di abbandonare il nichel e passare al ferro fosfato. Una scelta emergenziale, non c’è dubbio, perché se è vero che sono il 30% più economiche è altrettanto nota la loro minore efficienza. Le batterie al litio derivante da ferro fosfato, infatti, vengono utilizzate per sistemi molto meno complessi delle automobili green. Il problema è la durata della carica, di molto inferiore rispetto a quella offerta da batterie a ioni di litio a base di nichel. Non a caso, a livello mondiale, solo il 10% delle batterie derivate dal ferro viene destinato alle elettriche, mentre quelle a base di nichel rappresentano l’88% dei veicoli al di fuori della Cina. Eppure non si può fare altrimenti. I prezzi delle batterie sono aumentati vertiginosamente a causa del quadruplicarsi del valore del nichel dallo scorso anno.

Il problema appare chiaro quando si dà un’occhiata a chi produce batterie di fascia alta: la giapponese Panasonic e le sud coreane Lg e Samsung. Dunque, una partita che si gioca in terra asiatica tra pochi concorrenti. E stop.

Tuttavia, l’azienda di Elon Musk potrebbe imporre una svolta al mercato. A favore delle batterie a base di ferro fosfato c’è la loro capacità di rimanere termicamente stabili, così da abbattere il rischio incendi nelle auto. Molte aziende hanno infatti ricevuto reclami da parte dei compratori e questo comporta spese in più per le società. Chevrolet, marchio del gruppo General Motors, ha dovuto richiamare oltre 140.000 Bolt elettriche dopo che 10 veicoli avevano preso fuoco, per un costo aziendale di oltre 1,8 miliardi di dollari. Questo rischio, sommato alla carenza attuale, potrebbe spingere altre aziende a seguire l’esempio di Tesla e puntare sulle batterie in ferro. Anche qui, però, si dovrebbe pagare un dazio molto alto.

Aumentare la domanda di questo tipo di batterie vorrebbe dire dipendere ancor di più dalla Cina, che ne produce oltre il 95%. In Asia, su quattro produttori di batterie, solo due sono specializzati nel ferro fosfato e sono proprio le cinesi BYD e CATL. Inoltre, sotto la supervisione cinese c’è anche l’80% della raffinazione dell’estrazione mineraria mondiale di materie prime da utilizzare per la realizzazione di batterie per auto elettriche. Insomma, ai vantaggi che questo cambio di rotta comporterebbe – prezzi e rischi più bassi – bisogna anche mettere in conto l’accrescere della dipendenza nei confronti di Pechino che godrebbe della sua posizione di leadership.

Va perciò letta con quest’occhio l’approvazione a inizio mese dell’America COMPETES Act da parte della Camera dei rappresentanti, un pacchetto da 52 miliardi di dollari per rivitalizzare l’industria americana dei semiconduttori. Altri 45 miliardi di dollari, invece, saranno destinati al miglioramento della catena di approvvigionamento.

Se la Cina gode da una parte, dall’altra piange. Perché la dipendenza può riguardare campi diversi, ma la sostanza è sempre la stessa. Mentre gli Stati Uniti sono costretti a rivolgersi a Pechino per le batterie, la Cina è costretta a rivolgersi a Washington per far funzionare le sue auto senza conducente. Le aziende cinesi, infatti, sono dipendenti dalle forniture di chip made in Usa vista la distanza che divide i due Paesi in questo settore.

Gli Stati Uniti sono partiti prima, hanno investito di più e adesso si trovano un vantaggio considerevole rispetto ai rivali. I 3,5 miliardi di dollari che secondo Deloitte l’industria cinese dei chip ha attratto a sé nei primi sei mesi del 2021 sono una goccia in un oceano rispetto a quelli statunitensi. Se si guarda alla somma che il leader per eccellenza della categoria, la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC), prevede di spendere per quest’anno e la si confronta con un’azienda cinese di alto livello, si comprende bene il divario: 44 miliardi di dollari della TSMC contro i 5 miliardi di dollari della SMIC.

Non c’è niente di strano, dunque, nel vedere Xi Jinping attribuire all’indipendenza tecnologica un valore differente rispetto agli altri. Una volta raggiunta non ci sarebbe più bisogno di rivolgersi alla controparte americana. Per questo, gli investimenti sono stati massicci. La società di consulenza McKinsey prevede che tra poco più di quindici anni in Cina il 40% delle automobili sarà a guida robotizzata, con ricavi che supereranno i duemila miliardi di dollari – mille dalla vendita di veicoli, gli altri mille (e cento) dai servizi di mobilità. Tutto per slegarsi dal dominio americano: la californiana Nvidia, ad esempio, rifornisce con i suoi chip 18 aziende cinesi.

La strada da percorrere per Pechino è lunga e tortuosa. In molti non ritengono possibile arrivare a un’indipendenza nei chip nel giro di pochi anni. Riuscirci richiederebbe uno sforzo enorme che, alla fine, potrebbe non bastare. Fino a quando non riusciranno a camminare con le proprie gambe, Pechino e Washington conoscono bene i reciproci punti di debolezza.

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