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Parlando a Taormina nel settembre del 2021, la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha deplorato la perdita di fiducia degli italiani nella magistratura; ha annunciato una serie di riforme radicali, e ha aggiunto che queste non saranno sufficienti senza un qualcosa “di più nobile e più alto”. Ma soprattutto ha pronunciato una frase terribile: “Dobbiamo fare di tutto perché il giudice torni a essere con quella statura che la Costituzione gli chiede nel momento del giuramento. L’art. 54 chiede disciplina e onore”. Perché sono parole terribili? Perché Cartabia non ha detto che i magistrati devono “mantenere” quell’alta statura, ma che devono recuperarla. Il che significa che l’hanno perduta.

Nessun guardasigilli si era mai espresso in termini così severi in questi ultimi venticinque anni. Eppure da tempo gli italiani avevano perduto la fede, e anche la speranza, nella giustizia e in chi l’amministra. Cartabia è andata tanto oltre perché la sua autorevolezza di ex presidente della Corte costituzionale, la sua competenza tecnica straordinaria, e soprattutto la sua verginità politica la rendevano invulnerabile. In altre parole, non correva il pericolo di essere raggiunta da un’informazione di garanzia o peggio di finire sui giornali per la pilotata divulgazione di intercettazioni ambigue, come è accaduto ad altri ministri, sindaci ecc., successivamente prosciolti senza nemmeno le scuse.

Ma la forza della Cartabia risiedeva anche nella stessa diagnosi che aveva formulato. Nel lungo contenzioso che da Mani Pulite in poi ha sempre opposto politica e magistratura, la debolezza della prima era accentuata dalla forza della seconda.

Abbiamo visto che l’avvio di questa subordinazione era iniziato con l’arresto di Mario Chiesa, ma era culminato, due anni dopo, con il ritiro del decreto Biondi. Da allora ogni iniziativa governativa o legislativa in materia giudiziaria era sottoposta al placet e all’exequatur delle toghe, salvo essere criticata, derisa o addirittura disapplicata quando non coincideva con i loro convincimenti. D’altro canto la politica aveva confermato la sua inettitudine non solo piegandosi a questi diktat, ma continuando a sfruttare le inchieste come strumento per eliminare nei tribunali l’avversario che non riusciva a battere nelle urne. Il caso di Salvini insegna.

Con l’avvento del governo Draghi la situazione è mutata su entrambi i fronti. Da un lato, la politica ha riacquistato vigore per l’autorevolezza del timoniere di una barca a rischio di naufragio. L’emergenza Covid associata alla spaventosa crisi economica ha costretto i litiganti a sottoporsi, con l’avallo e forse l’ordine di Mattarella, alla direzione necessitata di un leader incontaminato e rigoroso. Dall’altro lato, al recupero di credibilità della politica, ha fatto riscontro il crollo di quella della magistratura. Così il rapporto di forze, se proprio non si è invertito, certamente si è indirizzato verso un riequilibrio. Sono queste circostanze, il mutamento dei soggetti e il capovolgimento del clima, ad aver reso possibili le severe parole della Cartabia, e le riforme, per quanto timide e insufficienti, che ne sono seguite.

Se il mutamento dei soggetti è stato determinato dall’irreversibile crisi dei due governi Conte, dall’avvento del Covid e dal reclutamento presidenziale di Draghi, quello del clima è dovuto in gran parte al disgusto dei cittadini davanti agli scandali che hanno travolto e stanno travolgendo la magistratura.

Il sistema Palamara ha rivelato il mercimonio dei voti e delle cariche negli alti gradi delle toghe. Peggio. Le ammissioni dell’ex capo del sindacato hanno consolidato il sospetto che alcune indagini fossero rivolte a eliminare personaggi sgraditi: la frase “Salvini è innocente, ma bisogna attaccarlo” è deplorevole in bocca a un politico, ma è un sacrilegio in quella di un giudice. Come se questo “mercato delle vacche” (ripetiamo: è l’espressione usata da un alto magistrato) non fosse bastato, ecco lo scandalo di Milano, con mezza Procura indagata, e il dottor Davigo, uno dei suoi esponenti storici, finito al Csm e da qui sotto inchiesta.

Infine, nell’ottobre 2021 è intervenuta la sentenza di Palermo che ha demolito un’inchiesta durata anni, al prezzo di inaudite sofferenze umane e di un colossale spreco di risorse, per un fatto che non costituisce reato. Da ultimo, in un messaggio all’Anm del 15 ottobre dello stesso anno, Mattarella ha ammonito che alla magistratura servono non solo riforme, ma una “rigenerazione etica”. Parole anche più dure di quelle di Cartabia, da lui ribadite dopo poco più di un mese, il 24 novembre, nel discorso alla Scuola superiore della Magistratura a Scandicci con un duro monito contro ogni protagonismo e autoreferenzialità.

Questo radicale cambiamento di disposizione dei cittadini e di chi li governa verso la giustizia si è tradotto nella valanga di firme a favore del referendum. Per ora ci basta rilevare che l’indignazione non si è esaurita in sterili mugugni, ma si è tradotta in un’iniziativa suscettibile di conseguenze normative.

Un’altra conseguenza della nuova atmosfera innovatrice è l’invito, proveniente da più parti, alla costituzione di una commissione d’inchiesta, munita di poteri inquirenti, sui rapporti tra politica e magistratura. Questo perché i gravissimi fatti emersi dalle dichiarazioni di Palamara non potranno mai essere chiariti dalle procure, per tre ragioni.

In primo luogo perché potrebbero esservi dei conflitti di interesse, o almeno delle incompatibilità, in quanto non sappiamo ancora il numero e la qualità dei contatti tenuti da Palamara e degli altri magistrati tra loro.

Poi perché non tutti questi comportamenti, per quanto deplorevoli, costituiscono reato, e quindi le procure non avrebbero competenza a trattarli.

Infine perché lo stesso Csm si è dimostrato del tutto inadeguato al compito. Ha sperato di cavarsela espellendo Palamara, come se fosse l’unico responsabile di un sistema che invece era perfettamente noto anche ai suoi stessi componenti. E poiché questa indagine qualcuno dovrà pur farla, e la magistratura non la può fare, l’unico organo previsto dalla Costituzione è una commissione parlamentare.

È vero che i precedenti non sono incoraggianti, tuttavia è presumibile che molti tra gli stessi magistrati collaborerebbero volentieri a eliminare questa cappa di discredito che è caduta su di loro, e che non si meritano.

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