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Tutto pur di recidere il cordone ombelicale energetico che lega Roma a Mosca. Nei giorni in cui si consuma il dramma dell’Ucraina, ormai vicina alla capitolazione e alla probabile riscrittura della sua carta geografica, il premier Mario Draghi, intervenuto d’urgenza alla Camera, ha messo in campo una possibile soluzione per tentare di sganciare l’Italia dal gas russo. L’ex presidente dalla Bce sa fin troppo bene due cose.

Primo, l’Italia, sprovvista del nucleare da 36 anni, compra gas dalla Russia e dall’Algeria e questo ovviamente la rende esposta come nessun altra Nazione alle fluttuazioni del mercato e alle tensioni geopolitiche (qui l’intervista all’economista Carlo Alberto Carnevale Maffè). Senza considerare che, una possibile ma ancora non certa, estromissione del sistema finanziario russo dal circuito globale Swift, avrebbe quasi certamente come primo effetto una rappresaglia di Mosca sulle forniture di gas all’Europa. Con tutte le conseguenze del caso. Secondo, è quasi impossibile che l’Italia torni all’atomo in tempi non decennali, nonostante l’energia nucleare sia stata inserita nella tassonomia europea.

Meglio, dunque, rispolverare il vecchio e sporco carbone, nell’attesa che si decida, ideologia permettendo, di estrarre il gas nel sottosuolo e dare campo libero alle trivelle. “Potrebbe essere necessaria la riapertura delle centrali a carbone, per colmare eventuali mancanze nell’immediato. Il governo è pronto a intervenire per calmierare ulteriormente il prezzo dell’energia, ove questo fosse necessario. E io già so che sarà necessario”. Draghi ha quindi tracciato una nuova strategia energetica dell’Italia per affrancarsi dal gas russo sia nel breve periodo che nei prossimi anni.

Attualmente nel Paese vi sono ancora sette centrali a carbone in funzione: si stratta della centrale “Eugenio Montale” di Vallegrande (La Spezia), la centrale “Andrea Palladio” di Fusina (Venezia), la centrale di Torrevaldaliga Nord a Civitavecchia, la centrale “Federico II” di Brindisi e la centrale “Grazia Deledda” di Portoscuso (Sud Sardegna), la centrale di di Monfalcone (Gorizia) e quella di Fiume Santo (Sassari). I sette impianti producono poco più del sei per cento dell’elettricità usata in Italia e secondo il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima firmato nel 2019, andavano dismesse entro il 2025 o riconvertirle in centrali a gas naturale.

“La maggiore preoccupazione riguarda il settore energetico, che è già stato colpito dai rincari di questi mesi: circa il 45% del gas che importiamo proviene infatti dalla Russia, in aumento dal 27% di dieci anni fa. Le vicende di questi giorni dimostrano l’imprudenza di non aver diversificato maggiormente le nostre fonti di energia e i nostri fornitori negli ultimi decenni. In Italia, abbiamo ridotto la produzione di gas da 17 miliardi di metri cubi all’anno nel 2000 a circa 3 miliardi di metri cubi nel 2020 – a fronte di un consumo nazionale che è rimasto costante tra i 70 e i 90 miliardi circa di metri cubi. Dobbiamo procedere spediti sul fronte della diversificazione, per superare quanto prima la nostra vulnerabilità e evitare il rischio di crisi future”, ha messo in chiaro il premier.

Ma c’è anche da tirare fuori il gas. Pur riconoscendo l’importanza delle rinnovabili (fronte su cui l’Italia è ancora indietro), Draghi ha ribadito che il gas resta essenziale come combustibile di transizione. Oltre a rafforzare il corridoio sud e a migliorare la capacità di rigassificazione, il premier ha invocato l’aumento della produzione nazionale a scapito delle importazioni. “Perché il gas prodotto nel proprio Paese è più gestibile e meno caro”.

Di sicuro, il possibile ritorno al carbone (a La Spezia a fine 2021, Enel ha chiuso dopo quasi 60 anni una sua centrale), non piace a tutti. Anzi. “Penso che, dopo l’aggressione della Russia all’Ucraina, sul terreno delle conseguenze che rischiano di abbattersi sulla nostra economia a partire da quelle energetiche si debba investire con rapidità e con grande decisione sulla transizione ecologica, sulla diversificazione delle fonti energetiche e soprattutto su fonti di energia pulita”, ha attaccato Nicola Fratoianni, leader di Sinistra Italiana.

Più gas casalingo e il ritorno del carbone. L'energia a prova di Russia

Il premier rilancia le fonti fossili per compensare una possibile crisi del gas e aprire la strada verso lo sganciamento dalle forniture russe. In Italia ci sono sette impianti che producono il 6% dell’elettricità. Ma c’è anche da spingere sull’estrazione del gas sotto i nostri piedi

 

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