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Colpire ovunque e comunque. Dimensione militare e contesto strategico indicano che l’attacco Usa ai tre siti nucleari iraniani di Fordow, Natanz ed Esfahan ha dimostrato solo in parte il potenziale bellico e la capacità di deterrenza mondiale degli Stati Uniti. Ben al di là dell’inconsistenza militare della Repubblica islamica, praticamente disarmata e annientata da nove giorni di bombardamenti israeliani, dallo spazio alle profondità degli oceani le forze armate americane hanno dimostrato di essere in grado di attaccare con precisione ed efficacia, ma anche di prevenire e difendersi su tutti gli scacchieri.

La lezione iraniana in realtà è rivolta alla Cina, alla Corea del Nord, ai nostalgici dell’epopea sovietica della Russia e a tutti i regimi, come quello pakistano con variegate venature islamiche, dotati di missili balistici nucleari.

La sincronizzazione del blitz compiuto dai bombardieri strategici B-2 Spirit, dai sottomarini che hanno lanciato i missili Tomahawk, dalle portaerei e dalle unità navali che hanno assicurato la copertura all’intera missione, evidenzia che la potenza militare degli Stati Uniti ritenuta in declino è invece intatta e si è anzi ulteriormente rafforzata.

Analisi strategiche complessive confermate dall’esame dei rivelamenti degli effetti del bombardamento dei siti atomici iraniani. Nelle immagini ad alta risoluzione delle fotografie satellitari si vedono tutti i crateri in corrispondenza dell’impatto delle bombe Gbu-57 “spaccabunker” usate per colpire gli impianti sotterranei. Secondo gli esperti, attorno ai crateri delle bombe, in particolare nel sito di Fordow, non ci sono segni di estese devastazioni superficiali. Le bombe sono infatti progettate per detonare solo in profondità, dopo la penetrazione.

Saranno gli sviluppi dei prossimi giorni a delineare l’esatta entità della distruzione e dei danni arrecati, sia a Fordow che a Natanz e Isfahan.

Mentre a Washington e a Gerusalemme i più ottimisti attendono l’implosione del regime degli ayatollah, praticamente messo al tappeto dall’attacco Usa, come farebbe pensare la girandola di telefonate tra i leader di Egitto, Oman, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Qatar e Kuwait, ovvero i Paesi arabi ”mediatori”, Pentagono e intelligence vagliano tutte le opzioni per fronteggiare le contromosse di Teheran. Soprattutto la più temuta: la chiusura dello Stretto di Hormuz.

Cruciale per i traffici energetici mondiali un suo blocco rischia di far impennare i prezzi di petrolio e gas, con gravi ripercussioni su economie e mercati globali, in particolare europei.

I reparti speciali americani, a cominciare dai Navy Seal dei Marines, sono già stati dislocati nella zona per impedire che le residue forze iraniane possano minare le acque. Secondo uno studio della JP Morgan se l’Iran dovesse bloccare Hormuz i prezzi del greggio potrebbero arrivare a 120/170 dollari al barile, con conseguenze a cascata sui premi assicurativi per il trasporto marittimo.

Al netto della propaganda iraniana, propaganda che ha superato per sfacciataggine i proclami di vittoria nazisti mentre Berlino era già in mano nemica, l’unico timore è che il delirio fondamentalista spinga l’ala più radicale del regime ad assemblare e lanciare con i restanti missili ipersonici Fattah armi non convenzionali, batteriologiche o peggio rudimentali bombe atomiche sporche, cioè con effetti radioattivi. Un colpo di coda destinato solo a perpetuare a futura memoria una sorta di misticismo del sedicente martirio fondamentalista.

L’attacco americano all’Iran parla a Cina e Russia. L'analisi di D'Anna

La lezione iraniana in realtà è rivolta alla Cina, alla Corea del Nord, ai nostalgici dell’epopea sovietica della Russia e a tutti i regimi, come quello pakistano con variegate venature islamiche, dotati di missili balistici nucleari. L’analisi di Gianfranco D’Anna

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