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L’origine dei mali di Milano sono concentrati nel digiuno culturale e intellettuale della conoscenza. Chi è in grado di parlare di politica della casa? Si fa sempre accenno al piano, anni Cinquanta-Sessanta, di Fanfani. Da allora più nulla. È vero. Ma stiamo in faccia a una situazione anomala. L’80% degli italiani sono proprietari almeno di una casa. Non esiste al mondo un tasso di proprietà privata così alto. Difficile per la politica concentrarsi sull’edilizia popolare e sui canoni sociali, che sono angosce per minoranze che spesso non votano (questa è la vulgata circolante, la realtà è ben diversa basta leggersi gli ultimi dati delle politiche nei quartieri popolari di Roma per vedere quante persone che avevano votato l’ultima volta per Berlinguer sono corsi a mettere la croce su Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni). Nel frattempo le situazioni delle periferie sono degradate. I centri delle città svuotati. Milano è un caso. Oggi nella cinta ‘business class’ abitano famiglie borghesi, anziani stanziali in quelle case da generazioni e molti single in affitto con lavori da professionisti ben retribuiti. Il cosiddetto ceto medio sta fuori Milano. Anche il lavoro è uscito dal centro città o sta in smart working. Da contorno i quartieri dell’hinterland in sfacelo, casermoni popolari abbandonati, in attesa di manutenzione da decenni. Ricordiamo nel 2017 la visita pastorale di Papa Francesco alle ‘case bianche’ per testimoniare la vicinanza alle comunità più emarginate.

La politica a digiuno sul tema si è lasciata supervisionare dall’urbanistica finanziaria convinta di far diventare Milano come New York costruendo dal basso verso l’alto. Quello di Milano contemporanea è un incidente di percorso atteso. Malattia incline di molte città grandi e piccole. Sotto la Madunina è scoppiato il caos perché quando non crei armonia non si trova l’equilibrio. E si mette sotto il tappeto la risoluzione dei problemi. L’edilizia popolare che è avanzata in questi anni tra rattoppi e pezze messe qua e là è diventata un anello mancante che pesa. Al quale la politica deve iniziare a dedicarsi per trovare soluzioni. Partendo da alcuni obiettivi.

Le aziende regionali alle quali spetta la cura del patrimonio immobiliare delle case popolari andrebbero azzerate. Chiuse. Per assenza di performance gestionali. E tutto andrebbe centralizzato a Roma. Ripescando il sistema delle trattenute Gescal (Gestione Case per i Lavoratori, nato dal piano INA – Casa) in busta paga che ha permesso agli inquilini fino a trent’anni fa di riscattare le case in cui erano in affitto e diventare quindi proprietari. Perché il sistema deve girare attorno a una strategia di responsabilizzazione dell’inquilino che permette poi di far sì che non si scenda vertiginosamente sotto la soglia del degrado. È quel diritto di proprietà enunciato da Margaret Thatcher negli anni Ottanta per incoraggiare la vendita delle case popolari agli inquilini. Politica poi ripresa dal candidato premier conservatore Cameron ‘per ogni casa venduta, le amministrazioni locali ne costruiscono un’altra’. Fino ad arrivare al programma dei laburisti, ogni cittadino inglese proprietario di una casa. Tutte iniziative prese per evitare lo spopolamento delle metropoli da parte del ceto medio.

Stando in Italia da quelle trattenute Gescal a oggi c’è il vuoto (si potrebbe benissimo mettere in circolo il sistema dell’affitto rata del mutuo per l’acquisto della casa). Le case popolari vivono una rincorsa alla rottamazione perché sono spesso immobili che avrebbero necessità di cura manutentiva che non è fatta per mancanza di risorse finanziarie. Mentre i canoni sono ormai adeguati da tempo al reddito (ogni due anni si procede all’anagrafica reddituale del nucleo famigliare) di chi vi abita raggiungendo soglie discretamente consistenti generando quegli squilibri della gestione che poi accelerano il degrado.

Infatti, l’incapacità di attivare livelli diversi di amministrazione (ad esempio tra l’inquilino che paga e quello moroso) fanno si che a rimetterci è il locatario preciso, puntuale, corretto nel rispettare scadenze e regolamento dell’immobile. Le aziende regionali tagliano gli interventi manutentivi, gli inquilini abitano in edifici con impianti elettrici non a norma, ascensori da cambiare, cura dei giardini senza guida e via elencando. Naturalmente i problemi sono maggiori nelle grandi città e sono resi meno invadenti nei piccoli centri. Però lo stato è di un cantiere aperto e sospeso che vive per decenni senza soluzione. La politica ha il dovere di applicarsi. Forse quando si trattava di Istituto Autonomo Case Popolari con la presenza dei partiti nei consigli di amministrazione provinciali (con le Aziende Regionali ci sono stati accorpamenti di provincie, ad esempio Mantova e Cremona fanno riferimento a Brescia) era maggiore e più incidente il potere d’intervento e c’era l’occasione per trovare soluzioni eccellenti.

Il nulla odierno ha generato il disinteresse della politica. È da riflettere che non si riesce a far comprendere al legislatore, a coloro che siedono in Parlamento, la necessità di approvare provvedimenti che sono il minimo sindacale.

Ho bussato a molte porte per chiedere di inserire in detrazione della dichiarazione dei redditi gli affitti delle case popolari. Provvedimento che prese solo il Governo Renzi per poi cessare una volta chiusa l’esperienza a Palazzo Chigi. Ebbene la politica tutta non ha prestato ascolto perché da un lato si è autoesclusa da questi problemi e sull’altro fronte i partiti contano poco o nulla. Si osservi le amministrazioni comunali, a partire dal caso Milano. Si concentra il via libera decisionale solo nelle mani del sindaco che per molti versi si trova di fronte, pressato, da poteri finanziari che lo portano via in una corrente così forte alla quale è impossibile opporre resistenza. Infatti dov’era il Pd (gli organismi dirigenti) a Milano? Il partito con la maggioranza relativa di consensi elettorali che non esprime nemmeno il sindaco della città (Sala è un senza tessera) può essere assente con dei suoi uomini di valore e preparazione di fronte a scelte determinanti e rivoluzionarie per la città?

Giorni fa (riprendo la notizia da un editoriale di Paolo Del Debbio su La Verità) abbiamo assistito a una grande lezione politica di Giorgietti, ministro dell’Economia. L’esponente del Governo Meloni ha bacchettato la Banca Centrale Europea affermando: “Le banche centrali non vivono su Marte, vivono in mezzo a noi, in mezzo all’economia, fatta di famiglie e imprese. Quindi se scoppiano le guerre non ci sono soltanto le sacre regole delle banche, c’è anche la valutazione delle realtà come le vediamo”. Quello di Giorgietti è un limpido e reattivo risveglio della politica di fronte all’invadenza del potere e del tecnicismo finanziario. Che fa pendant con l’arruffato interventismo di Trump quando intende sloggiare il capo della Federal Reserve. Esempi macro rispetto a quello che è avvenuto a Milano ma che ci dicono della necessità che la politica riacquisti quel potere che permette di tenere la schiena diritta di fronte all’invadenza del potere finanziario operatore esclusivo nel determinare le scelte urbanistiche della città meneghina.

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