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Ci risiamo con le procure che mandano a gambe all’aria lo Stato di diritto attribuendosi poteri che spettano alla politica. L’apparato produttivo del Paese non si è ancora ripreso dall’opificidio dell’ex Ilva di Taranto, perpetrato dalla magistratura di quella città in concorso con il radicalismo ambientalista e l’opportunismo delle istituzioni e della politica locale nonché degli stessi sindacati che a Milano si è aperto un altro caso inquietante di sviamento di potere, con la pretesa della Procura meneghina, onusta di (dis)onori nella destabilizzazione del Paese, di contestare un progetto di riqualificazione urbana dell’unica città europea della Penisola, protesa ad occupare un posto di rilevo tra le capitali del Continente. Ovviamente è giusto verificare se vi sono state violazioni di norme o reati da perseguire.

Ed è inaccettabile, invece, avvalersi della pratica del sospetto per definire criminale una linea di politica urbanistica definita ed approvata nelle sedi legittime della politica e della amministrazione. In sostanza un sistema di progetti rivolti al recupero di aree dismesse da quando Milano non è più una città industriale, viene assimilato ad un disegno criminale, al pretesto per manovre di corruttela tra la politica e le grandi imprese edili. La maxi inchiesta sull’edilizia milanese ipotizza l’esistenza di un “sistema” per la gestione dell’edilizia cittadina nel contesto del quale uno stuolo di liberi professionisti , secondo i pm, lavorava a un piano “ombra” e al quale il Comune patrocinava uno studio per interventi in nove aree della città. Un progetto che, secondo la Procura, è un “raggiro”.

L’operazione “di vasta speculazione edilizia” puntava, si legge nelle carte, a facilitare “l’avvio di un piano di affari occulto” attraverso l’inserimento di quote di edilizia residenziale sociale per poter costruire liberamente e “giustificare l’interesse pubblico degli interventi”: si sarebbero dunque individuate aree del territorio passate “da non edificate a densamente edificate”. La medesima logica malsana che nella vicenda di Tangentopoli indusse la Procura per antonomasia a ritenere che i piani di ristrutturazione del settore chimico non appartenessero ad esigenze di politica industriale, ma fossero occasioni per distribuire ‘’mazzette’’ ai partiti di governo. Così la presenza di corollari di carattere penale (perché le dazioni c’erano davvero) finiscono per inquinare misure di risanamento produttivo necessarie.

La Procura di Taranto arrivò al punto di sequestrare prodotti finiti dell’acciaieria, stivati nel porto, qualificandoli come prove di reato. Quella di Milano ha sequestrato cantieri con scheletri di immobili abbandonati sotto gli occhi delle famiglie che avevano già versato congrui anticipi per entrare in possesso di un appartamento e che ora non sanno quale sarà la sorte dei loro risparmi. Tra qualche anno quando la vicenda arriverà all’esame di un giudice terzo, finirà in una bolla di sapone, perché nella generalità dei casi la magistratura giudicante sana e corretta. La Procura di Milano non è nuova a queste esperienze: si pensi solo al tonfo dell’accusa nel processo Eni/Nigeria, un altro caso emblematico di un “fare giustizia” molto discutibile, arrivando persino a commettere veri e propri reati – ora sub iudice – nella conduzione del processo allo scopo di supportare il proprio teorema.

Ma quegli immobili fatiscenti, come se fossero reduci da un bombardamento della Striscia di Gaza, quando tutto sarà finito nelle aule di giustizia, saranno solo da demolire o nel migliore dei casi da ristrutturare negli interni. Più o meno lo stesso destino dello stabilimento di Taranto a cui è stato impedito persino il risanamento e si è fatto di tutto per cacciare quell’imprenditore (Arcelor Mittal) che, alla prova dei fatti, è risultata la sola soluzione possibile, net tanto divagare in cui si è cimentato anche il nuovo governo.

Che fare a Milano? Tocca alla politica drizzare finalmente la schiena. E la destra deve dare l’esempio senza farsi tentare dalla strumentalizzazione dell’inchiesta. La lotta politica non è un giro di valzer e sarebbe un atto di giusta ritorsione trattare Giuseppe Sala con la medesima vigliaccheria con cui la ‘’banda del buco’’ agì nella vicenda di Giovanni Toti. Può essere che la Procura di Milano punti alla dimissioni di Sala come quella di Genova pretese quelle di Toti per liberarlo dagli arresti domiciliari. Ma il governo e la maggioranza non sarebbero credibili nella loro battaglia per la separazione dei ruoli nella magistratura se la Procura di Milano potesse portare a termine il suo disegno, dimostrando urbi et orbi l’inutilità di quella riforma per riportare le Procure nell’ambito delle funzioni attribuite dalla legge.

La sola cosa da fare adesso è quella di esortare Sala a non dimettersi. Non per salvaguardare la sua persona, ma il suo ruolo. E quello di tutti i sindaci. Sala ha commesso un grave errore quando ha chiesto di bloccare la leggina Salva Milano già approvata, in una logica bipartisan, da un ramo del Parlamento. È vero che il Pd dopo aver sollecitato il provvedimento, se l’era fatta sotto al primo rumore molesto proveniente dal Palazzo di Giustizia sul quale sta scritto minacciosamente il broccardo: Iustitia fit, pereat mundus. Ma per la politica è venuto il momento di resistere, resistere, resistere. E la sorte ha voluto che questa volta la linea del Piave passasse da Palazzo Marino. Giorgia Meloni lo ha capito: faccia il favore di spiegarlo anche ai suoi. Perché tra poche ore – come sempre – il Pd sceglierà di stare con la Procura, abbandonando Sala al suo destino.

Perché Sala non deve dimettersi. La versione di Cazzola

Per la politica è venuto il momento di resistere, resistere, resistere. E la sorte ha voluto che questa volta la linea del Piave passasse da Palazzo Marino. Giorgia Meloni lo ha capito, ora faccia il favore di spiegarlo anche ai suoi. Perché tra poche ore, come sempre, il Pd sceglierà di stare con la Procura, abbandonando Sala al suo destino. La riflessione di Giuliano Cazzola

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