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La decisione del ministro della Difesa Lorenzo Guerini di sospendere di fatto l’accordo di cooperazione militare con l’Etiopia sottoscritto lo scorso 10 aprile 2019 segue un trend dettato dalla crisi militare contro i tigrini, allineandosi a mosse simili avviate anche da Washington. La guerra che il premier Abiy Ahmed è intenzionato a vincere contro le forze del Tigray rende oggettivamente complicati diversi generei di cooperazione con Addis Abeba.

L’Italia, dice la nota di risposta del ministro a un’interrogazione parlamentare avanzata cinque mesi fa dall’onorevole Piera Aiello (M5S), sostiene “convintamente la piena e immediata cessazione delle ostilità ed il ritiro delle truppe eritree dal suolo etiopico, nonché il pieno, sicuro e incondizionati accesso umanitario alle regioni più colpite dal conflitto, il rispetto del diritto internazionale umanitario, la conclusione di indagini trasparenti e indipendenti sulle gravi violazioni e abusi dei diritti umani e, non ultimo, l’avvio urgente di un processo di dialogo nazionale, effettivo e inclusivo”.

Guerini, la cui scelta è stata molto apprezzata dalla comunità tigrina internazionale, ha anche precisato come da tempo sia stata rifiutata anche qualsiasi richiesta di armamenti pervenuta all’Unità per le Autorizzazioni dei Materiali d’Armamento (Uama), “non potendosi escludere il rischio di un possibile impiego nel contesto delle ostilità in corso”.

La risposta all’interrogazione data dal ministro Guerini, spiega Nicola Pedde (Igs) sul sito Meridiano42.it, costituisce “uno dei primi elementi di chiarezza ufficiale in merito alla posizione italiana sul conflitto in Etiopia, ribadendo la posizione da tempo espressa dal ministero degli Esteri in sede diplomatica e bilaterale”. La posizione che Roma prende per atto della Difesa riconosce anche la presenza di combattenti eritrei nel conflitto e avanza la richiesta di un’inchiesta indipendente atta a far luce sui gravi crimini commessi nel corso degli scontri.

Una linea molto simile a quella tenuta dagli Stati Uniti, dove il presidente Joe Biden pressa il primo ministro (già Premio Nobel per la Pace) affinché fermi le armi. L’amministrazione del democratico a fine dicembre ha per esempio deciso di sospendere l’accordo commerciale noto come African Growth and Opportunities Act (Agoa, che permetteva di accedere al mercato statunitense senza il pagamento di dazi).

La guerra, nata dopo i rinvii elettorali che il governo giustifica come collegati alla pandemia ma che le opposizioni vedono come una forma per bloccare lo status quo, ormai dura dal novembre 2020: ha prodotto morti, feriti, profughi; meno di un mese fa l’Onu si è trovato costretto a sospendere gli aiuti umanitari per ragioni di sicurezza, denunciando che la situazione è “sull’orlo di un disastro”. Il governo etiopico ha colpito con durezza – anche usando armi turche, emiratine e iraniane – i ribelli del Tigray People’s Liberation Front, il gruppo etno-nazionalista che un tempo guidava il Paese e che ora è isolato nella regione settentrionale in opposizione ad Abiy Ahmed.

Sono in corso contatti interni (e cercati dall’esterno) per arrivare a una de-escalation, ma per ora non è chiaro a quali progressi potrebbero portare. Il livello di contrasto è aspro e con i tigrini si sono schierate anche le forze Oromo (il Federalist Congress e il Liberation Front) e l’Ogaden National Liberation Front. Diversi gruppi politici hanno deciso di non partecipare alla Commissione per il Dialogo Nazionale istituita a fine dicembre 2021, perché viene considerata troppo poco imparziale (sbilanciata sul governo).

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