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Venezia fortezza con le mura d’acqua, città sull’orlo di affogare, Disneyland secolare, nebbia che entra nelle ossa, riflessi traslucidi, umidità che si impiastriccia con l’aria. Carnevale festeggiato a volte come su un autobus in ora di punta tra calli senza uscite. Mare strappato alla palude che ricorda la sua origine e minaccia col ronzio instancabile delle zanzare. Parco divertimenti e faro di potenza e civiltà. Persino la residenza del presidente Donald Trump, Mar a Lago, ha un nome di ispirazione veneziana.

Nulla congiunge il presente all’antico come questo confine di rive dolci, salmastre e salate tra palazzi di mattoni e pietra cresciuti su fondamenta di legno imputridite dai flutti. Nulla è resistenza e collaborazione all’avanzata dei Turchi, doppiezza di giochi, congiunzione tra nord e sud con Shakespeare, tra est e ovest con Otello, tra terraferma e onde mobili come i suoi 436 ponti. Marmo, letteratura e natura si incrociano, incarnano il sapore caldo e speziato delle pitture di Tiziano rispetto a quelle più chiare, trasparenti di colleghi abbagliati dalla luce fiorentina.

Il sindaco di Venezia, o il capo della sua regione, il Veneto, è, può essere molto di più di un normale sindaco o governatore. È un Doge. O almeno lo può diventare.

Forse nessun evento spinse all’inizio dell’Italia politica come la fine della sua repubblica millenaria per mano di Napoleone nel 1797. Negli stessi giorni il toscano diventato imperatore di Francia inventava la Repubblica italiana cisalpina e il tricolore con il verde al posto del blu parigino. La città fu ceduta poi all’Austria che la controllò fino al 1866, quando la Prussia prese il dominio dei territori tedeschi per oltre mille anni parte del sacro romano impero, tra cui la cattolicissima Baviera.

A Venezia nel 1831, nasce, austriaca, la prima compagnia di assicurazioni d’Europa, le Generali. Seguì l’Austria a Trieste quando la laguna diventò italiana, fino al 1918, quando pure questo porto cadde sotto Roma. La compagnia è oggi cassaforte dei risparmi della penisola.

Il sindaco di Venezia è unico nel mondo. Luca Zaia, se non sarà più governatore del Veneto, si sposterà di ufficio e diventerà sindaco della Laguna, snodo di un tentacolo che va dalla Grecia, da Istanbul, fino a Budapest, Leopoli, il Mar Baltico. Il suo potere e influenza potrebbe non diminuire, ma anzi aumentare, specie dopo il chiasso e le polemiche per la sua candidatura respinta per il terzo mandato alla regione e il referendum di marzo, bocciato o promosso che sia, sull’autonomia differenziata.

Le cronache raccontano che Zaia si batta per la sua ambizione, che voglia scalzare il leader della Lega Matteo Salvini. Sarà tutto vero, ma è pur vero che c’è molto di più. Il problema forse non è il suo ruolo ma il grande meccanismo in moto intorno tra Vienna e Monaco.

La crescita di Venezia, cuore del Triveneto, e legata sempre più in un asse con la Lombardia, è allacciato allo sviluppo di regioni del vecchio dominio austro-ungarico, al momento governate da partiti di destra radicale simpatetici fra loro. Queste economie sono le più pulsanti del continente e sono restie a sopportare regolamenti e vincoli della Ue.

Nel 2023 il Pil dell’Austria era di 473 miliardi di euro. Quello dell’Ungheria circa 200 miliardi, 68 per la Slovenia e circa 82 per la Croazia. Il totale sono oltre 820 miliardi, un po’ più della Baviera che da sola nel 2023 aveva un Pil di 786 miliardi.

Il Pil del Veneto lo stesso anno era di oltre 180 miliardi a cui si può aggiungere quello del Friuli-Venezia Giulia (43 miliardi) e del Trentino Alto Adige (53 mld). La Lombardia da sola valeva oltre 442 mld. Il Pil di queste quattro regioni a forte attrazione leghista, anti UE e simpatizzanti fra loro, è di 718 miliardi, poco meno della Baviera. Ma il gran totale economica della zona è di oltre 2.200 miliardi, più del Pil di tutta l’Italia, e il doppio del Pil dell’Italia senza le quattro regioni.

La somma della popolazione è anche interessante. In Veneto ci sono 4,8 milioni di persone. In Friuli sono 1,2 e 1,1 in Trentino. Sono 10,1 in Lombardia, 17 milioni in totale – meno di un terzo della popolazione italiana per più di un terzo del Pil.

Ci sono 9,1 milioni di persone in Austria, 2,1 in Slovenia, 3,9 in Croazia, 9,7 in Ungheria, per un totale di 24,8 milioni. La Baviera ne ha 13,4 milioni. Al lettore i totali da comporre e scomporre come un Lego.
Sono una giungla di numeri che nascondono conti della serva. Non valgono per analisi approfondite, ma sono sufficienti a tracciare un orizzonte di attrazione: mostrano che l’affare neo-austro-ungarico non è strampalato. Esso potrebbe risucchiare fuori dall’Italia il Triveneto e la Lombardia.

Meno regolamenti europei, più disinvoltura in politica internazionale promettono margini di sviluppo senza limite. Almeno in teoria. Nella pratica può essere diverso, perché il diavolo è nei dettagli, che non tutti sanno maneggiare.

L’esperienza del Regno unito, forse più astuta dei dirigenti veneti, non è stata tra le più esaltanti. Nella Ue Londra era una delle capitali politiche (con Berlino e Parigi) e la capitale finanziaria del continente. Oggi è capitale di sé stessa, sotto assedio da richieste indipendentistiche di Scozia o Irlanda del Nord. Invece la finanza sta emigrando, od è emigrata, a New York o Francoforte.

L’asse Venezia-Vienna-Budapest facilmente potrebbe fare peggio. Ma la sconfitta del Regno Unito fuori della Ue non significa il successo dell’Unione europea o dell’Italia. Come sottolineato nel rapporto sulla competizione di Mario Draghi, tre decenni fa il Pil europeo era più grande di quello americano, oggi è un terzo più piccolo. È grande quanto quello cinese, che allora era più piccolo di quello della sola Italia del tempo.

In altre parole, se la Ue e l’Italia non riescono a dare una spinta significativa politica ed economica, al di là delle bizze di Zaia, le forze attrattive della Mittel Europa tra Monaco e Vienna potrebbero diventare irresistibili.

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La questione potrebbe poi allargarsi. Alla fine degli anni ‘90 gli Usa avevano individuato nella Cina il loro problema strategico, ma nel 2001 l’attentato alle Torri gemelle spostò l’attenzione strategica sul terrorismo islamico. Oggi, più di ieri l’America è convinta dell’importanza della Cina, ma forse nei prossimi mesi o paio di anni le cose potrebbero cambiare.

Crisi politiche nella Ue, o in Italia, che mettano a rischio poi basi Nato sul continente e aprano nuovi fronti alle ambizioni russe in Europa potrebbero costringere Washington a ripensare le priorità. Alla fine degli anni ’90 gli allora colonnelli Qiao Liang e Wang Xiangsui individuarono la pericolosità strategica di Al Qaida, quando pensatori del Pentagono la trascurarono. Se nel ’99 gli Usa avessero affrontato Al Qaida e l’Afghanistan forse tante cose sarebbero state diverse. Oggi non è chiaro se sarà uguale.

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