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Dopo il viaggio a Washington del ministro della Difesa di Israele Benny Gantz, ora tocca a un alto funzionario dell’amministrazione di Joe Biden volare in Israele. In questi giorni Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale, ha in agenda incontri con il presidente Isaac Herzog, il primo ministro Naftali Bennett e i ministri Gantz e Yair Lapid, a capo degli Esteri e futuro premier secondo gli accordi di rotazione nella maggioranza. Nella delegazione statunitense ci sono Brett McGurk, deputy assistant del presidente e responsabile delle politiche per l’area Mena, e Yael Lempert, assistente segretario di Stato per il Vicino Oriente. Previsto anche un faccia a faccia con il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas.

Il clima tra Washington e Gerusalemme non appare dei migliori. Almeno quello tra Biden e Bennett, se è vero, come ha rivelato Channel 13, che il presidente statunitense ha rifiutato diverse telefonate del primo ministro israeliane in queste ultime settimane.

Al centro delle discussioni c’è inevitabilmente l’Iran e l’accordo nucleare.

La linea dell’amministrazione Biden è chiara: il tempo per i colloqui a Vienna sul nucleare iraniano sta scadendo. Il timore di Israele è altrettanto noto: l’amministrazione Biden potrebbe cercare un accordo provvisorio con l’Iran congelando l’arricchimento dell’uranio al 60 per cento in cambio della fine di alcune sanzioni. Secondo il governo Bennett questa ipotesi darebbe fiato all’economia iraniana senza però alcun passo indietro effettivo sul programma nucleare.

La situazione sul Jcpoa è bloccata, e il tempo per ricomporre l’intesa sta scadendo con il rischio che si produca una “crisi in escalation” in Medio Oriente, ha detto Robert Malley, inviato speciale degli Stati Uniti per il dossier Iran. “A un certo punto, in un futuro non troppo lontano, dovremo concludere che il Jcpoa non esiste più e dovremo negoziare un accordo completamente nuovo e diverso, e naturalmente attraverseremo un periodo di crisi crescente”, ha spiegato alla Cnn.

Venerdì 17 dicembre, il settimo round di colloqui nucleari tra l’Iran, i membri del Jcpoa (Francia, Regno Unito, Germania/Unione europea, Russia e Cina) e gli Stati Uniti, si è concluso a Vienna. Non è chiaro quando i colloqui potrebbero riprendere, si spera relativamente presto (dicono i diplomatici europei), mentre non ci sono stati importanti sviluppi: con le ultime riunioni – le prima a cui hanno partecipato i funzionari della nuova presidenza Raisi – non si è raggiunto nemmeno il punto di partenza con cui i talks si erano interrotti a giugno; quando a negoziare c’era una squadra iraniana più aperta dell’attuale conservatrice.

Malley ha anche detto che l’Iran è vicino alla capacità di sviluppare un’arma nucleare nel prossimo futuro: “Se continuano al loro ritmo attuale, ci restano alcune settimane, ma non molto di più, a quel punto, penso, la conclusione sarà che non c’è nessun accordo da riprendere”. Ricomporre l’accordo ora è diventata una questione di tempo, dopo che per anni gli americani hanno seguito la linea tracciata dall’amministrazione Trump, che era uscita dall’intesa e riavviato una serie di sanzioni pesanti contro la Repubblica islamica secondo quella che viene definita la “strategia della massima pressione”.

A distanza di oltre tre anni dalla decisione di Donald Trump, e dopo che l’amministrazione Biden l’ha sostanzialmente tenuta in piedi, il bilancio è più o meno quello che ne fa Janan Ganesh sul Financial Times: l’Iran è adesso più vicino che mai alla costruzione di una bomba atomica (usarla è un altro discorso) e ha aumentato la sua cooperazione con la Cina (e stretto quella con la Russia), deluso e critico dal comportamento occidentale. “Se usiamo il metro dell’evoluzione interna dell’Iran piuttosto che quella geopolitica, i risultati sono disastrosi”, scrive Ganesh: il Paese non solo ha una leadership conservatrice ben più dura di quella pragamatico-riformista che aveva negoziato il Jcpoa, ma ha anche una terza generazione post-rivoluzionaria in cui stanno crescendo le istanze ultra-conservatrici.

Attualmente le condizioni per qualsiasi ripresa dell’accordo vanno dal fantastico (la fine di tutte le sanzioni di Stati Uniti e Unione europea, comprese quelle non legate alle questioni nucleari) al costituzionalmente impossibile (assicurazioni che nessuna futura Casa Bianca rinnegherà il Jcpoa qualsiasi cosa succeda). Posizioni che sono frutto anche della ricerca di consenso dell’amministrazione iraniana, che sta cercando di gestire la propria collettività. La quale è divisa: da un lato progressisti o riformisti che vorrebbero la fine delle politiche dure e l’apertura al mondo della Repubblica islamica; dall’altro i conservatori. Per provocare ad accontentare entrambi, Teheran finge di trattare: ossia lo fa, ma con richieste estreme, addossando la colpa del non raggiungimento di un punto di incontro agli altro.

L’amministrazione Biden è pronta a presentare una “sequenza di passi” con l’Iran per tornare alla conformità nucleare, ma non può vincolare un futuro presidente americano all’accordo, né tanto meno accettare subito la riduzione delle sanzioni: “Siamo preparati con un sistema in cui entrambe le parti sapranno chi farà cosa e quando, e siamo pronti a negoziarlo”, ha detto Malley. A questo punto, dopo aver cercato di tornare alla reciproca conformità all’accordo, per Washington è chiaro che ci sia da prepararsi a una situazione in cui non ci sarà una nuova intesa con l’Iran e il Jcpoa decadrà.

Anche a questo si legano i vari contatti con Israele e con i Paesi del Golfo, che condividono l’inimicizia esistenziale nei confronti della Repubblica islamica. Nei giorni scorsi Bennett si è recato in visita negli Emirati Arabi Uniti, un importante alleato degli Stati Uniti, ma anche il secondo partner commerciale dell’Iran e un canale per le transazioni commerciali e finanziarie di Teheran con altri Paesi. È stata la prima volta di un primo ministro israeliano dopo gli Accordi di Abramo. Come raccontato su Formiche.net, l’erede al trono Mohammed bin Zayed Al Nahyan appare orientato a una qualche forma di distensione, necessaria per sostenere la strategia di crescita del ruolo diplomatico ed economico, con l’Iran. E questo genere di contatti con la Repubblica islamica non dispiacciono a Gerusalemme, che non può parlare con il nemico ma accetta che un alleato fidato si occupi di aprire una forma di dialogo.

Teheran cerca di sfruttare le leve negoziali per poter progredire nel programma nucleare e poi usare quello come ulteriore leverage, ma è evidente che tutto questo ha un punto di rottura, e il rischio per gli iraniani sta nel sottovalutare la possibilità che americani e alleati spingano per un piano offensivo se quello diplomatico fallisse del tutto. Quattro alti funzionari israeliani che hanno partecipato alle riunioni a Gerusalemme con il consigliere per la sicurezza nazionale Sullivan hanno detto a Barak Ravid di Axios di essere usciti rassicurati dagli incontri, perché gli Stati Uniti sono pronti a prendere una linea più dura sull’Iran se necessario e a prendere in considerazione le opinioni di Israele.

Così Israele e Usa si preparano al futuro senza Jcpoa

Di Gabriele Carrer ed Emanuele Rossi

La situazione sull’accordo nucleare con l’Iran è bloccata e il tempo per ricomporre l’intesa sta scadendo con il rischio che si produca una “crisi in escalation” in Medio Oriente, dice l’amministrazione Biden. Teheran tira la corda ma il punto di rottura non è così lontano

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