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Come un prisma che si rivela mutevole a seconda della prospettiva con il quale lo si osserva, sono molte le chiavi di lettura possibili del concetto di sovranità digitale. Qualche ispirazione verso la giusta direzione con il quale guardarlo l’ha data nei giorni scorsi il premier Mario Draghi che, nella conferenza stampa congiunta con il presidente francese Emmanuel Macron tenutasi a valle della firma del trattato del Quirinale, ha caratterizzato la sovranità europea come la “capacità di indirizzare il futuro come vogliamo noi”.

Nel campo digitale, la facoltà di essere artefici del proprio destino può essere conquistata con due strumenti: le regole e gli investimenti tecnologici. Ma solo una loro combinazione equilibrata può produrre una sovranità digitale a vantaggio dei cittadini europei.

Molto si è parlato in questi anni del cosiddetto “Brussels effect”, il titolo di un fortunato libro di Anu Bradford, giurista di origine finlandese di stanza alla Columbia University di New York. Attraverso la definizione di un quadro regolamentare robusto e ambizioso, l’Unione europea è riuscita a imporsi come il principale rule-maker globale, influenzando la legislazione degli altri Paesi e inducendo di fatto aziende extra-europee a tenerne conto non solo per i prodotti e servizi venduti nel vecchio continente ma anche altrove.

Il caso di scuola è il GDPR, il regolamento europeo della privacy, approvato nel 2016 ed entrato in vigore nel 2018. Uno dei principi di base, quello della “privacy by design”, dunque già incorporata in un prodotto o servizio al momento del suo concepimento, è diventato in pochi anni il mantra di moltissime aziende statunitensi e, se è vero che gli Usa non hanno ancora una legge federale sulla privacy, la California, che è sede di gran parte delle grandi imprese tecnologiche statunitensi, ne ha approvata una molto simile.

Nonostante in Europa siano in molti a crogiolarsi della potenza del Brussels effect, la sovranità digitale esercitata a mezzo esclusivo o prevalente di regole è tuttavia un’anatra zoppa. Per due motivi principali.

In primo luogo, se non è accompagnata da una maggiore competitività digitale, conseguente a maggiori investimenti pubblici e privati, rischia di tradursi in un mero potere interdittivo e dunque di sfociare in un’arma protezionistica, a svantaggio di consumatori e imprese.
Inoltre, la costruzione di sistemi regolatori sempre più stringenti e complessi rischia di penalizzare paradossalmente di più le aziende europee, mediamente più piccole, rispetto ai colossi statunitensi e cinesi che dispongono di maggiori risorse, umane e finanziarie, per adattarsi al nuovo quadro.

È questo il rischio che corrono provvedimenti come il Digital Services Act (Dsa), il Digital Markets Act (Dma) e l’Artificial Intelligence Act (AI Act), i cui testi proposti nello scorso anno dalla Commissione europea sono attualmente in discussione e dovrebbero essere approvati tra il 2022 e il 2023.

Una delle ragioni che hanno spinto la Commissione a intervenire con provvedimenti tanto ambiziosi è stato il rischio di frammentazione del mercato interno, a fronte di interventi sempre più frequenti da parte degli stati membri. Così come naturalmente l’esigenza di porre mano ai rischi certamente presenti e talvolta già acclarati delle nuove tecnologie. Due fattori assolutamente ineccepibili, rispetto ai quali la Commissione si è giustamente mossa.

Tuttavia, se da un lato il nuovo quadro normativo è necessario per affrontare alcune criticità derivanti dalla rapida evoluzione del mercato, dall’altro deve stare attento a non creare conseguenze inintenzionali, soffocando l’innovazione e, paradossalmente, la stessa concorrenza. Troppi lacci e lacciuoli rischiano di ingessare il mercato così come la proibizione o una limitazione troppo stringente di importanti innovazioni, come ad esempio la pubblicità mirata e i sistemi di raccomandazione, auspicata da molte parti in Parlamento europeo.

Una dimostrazione perfetta di cosa non va in certe declinazioni della sovranità digitale: per colpire le imprese americane oppure per sublimare il concetto di privacy, oltre i rischi effettivi, si vietano o si depotenziano strumenti innovativi che aumentano il benessere sia delle imprese che dei consumatori. E che, ad esempio, evitano a questi ultimi di essere inondati da pubblicità del tutto inutile (o quantomeno ne riducono l’ammontare). Allo stesso tempo, alcuni obblighi o proibizioni verso i cosiddetti “gatekeeper”, cioè le imprese con un forte potere di mercato nei diversi segmenti dell’economia digitale individuati dal Dma, devono essere contemperati con il legittimo interesse degli utenti a veder proteggere l’integrità, la sicurezza e la qualità dei servizi acquistati.

Per mantenere un necessario equilibrio tra i diversi interessi in campo, è dunque necessario prevedere per il Dma (ma il principio vale anche per gli altri provvedimenti in campo) un dialogo regolatorio sufficientemente articolato e dinamico tra la Commissione e i gatekeeper ma più in generale gli stakeholder, naturalmente secondo modalità il più possibile trasparenti.

Ma, come sostiene il paper dal titolo “The multisided path to European digital sovereignty and the future of EU-US relations”, pubblicato oggi da PromethEUs, network di think tank sud-europei coordinato dall’Istituto per la Competitività (I-Com), per evitare che la sovranità digitale europea conduca a non auspicabili posizioni protezionistiche, un ruolo fondamentale potrà essere esercitato da nuovi forum di dialogo a livello internazionale come il Trade and Technology Council, inaugurato alla fine di settembre a Pittsburgh da Stati Uniti e Unione Europea. Un percorso di cui il paper non trascura le tante difficoltà, derivanti da una storia e una posizione molto diversa nell’economia digitale.

L’ambizione dell’Europa deve tuttavia essere quella di acquisire un maggior peso sulla scena globale, anche grazie a una proficua collaborazione con altre aree e Paesi del mondo, a partire dagli Stati Uniti, indiscutibilmente il nostro principale alleato, oltre a essere la principale economia del pianeta e il leader assoluto nelle tecnologie digitali. D’altronde, a scuola capita a tutti di trovarsi con un compagno più bravo. Ma di certo non aiuta né lui né noi estrometterlo. Una soluzione decisamente migliore è quella di imparare dai suoi lati migliori e magari di prepararsi insieme in vista della prossima interrogazione. Fuor di metafora, oltre alle regole, occorre tenere alta l’attenzione sugli investimenti, nella duplice dimensione quali-quantitativa. In altre parole, per realizzare una sovranità digitale di successo, occorre creare un circolo virtuoso tra regolamentazione e investimenti. Evitando di essere artefici di un futuro digitale europeo al ribasso.

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