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Se frugo nel cassetto dei miei ricordi d’infanzia tra i primi a uscire c’è quello del 25 Aprile. A casa nostra quel giorno cominciava abbastanza presto, quando mio padre si recava in salotto, dove si trovava il nostro grammofono, e metteva un disco di canti partigiani. Ricordo bene la copertina, bianca e rossa. Era un 33 giri che ascoltava appena le buone norme della convivenza con il vicinato lo consentivano. Più tardi, quando si faceva l’ora di andare a mangiare, la conversazione in quella giornata riguardava facilmente qualche aspetto della sua prigionia.

Paolo Cristiano, mio padre, partigiano delle brigate Giustizia e Libertà, fu arrestato in Veneto, dove operava con un amico sardo e uno triestino: avrebbe dovuto essere giudicato a Salò, ma un bombardamento alleato determinò la sua deportazione in Germania. I “repubblichini” lo consegnarono ai nazisti che poi lo processarono e condannarono a morte, condanna poi trasformata in lavori forzati a vita.

Dei tanti racconti, episodi, spezzoni di memoria che in questi giorni mi tornano alla mente, mi colpisce sempre più intensamente il suo racconto di quanto solido fosse diventato il suo rapporto con alcuni compagni di detenzione, tedeschi. Capivo allora perché insistesse su questo particolare? Li ricordo descritti come i suoi amici più cari di quei tempi difficilissimi: lui organizzava le fughe insieme a loro, che riuscivano sempre. Tanto i carcerieri sapevano bene che, ridotti in quelle condizioni, dopo pochi metri di fuga sarebbero crollati a terra esausti e loro li avrebbero facilmente ricondotti in prigione. Quando rientrò in Italia pesava sui quaranta chili.

Ma questa insistenza sull’amicizia con i compagni di detenzione tedeschi si accavalla in me con un altro fatto di cui ho vivida memoria, molto diverso. Mio padre aveva un collega d’ufficio che abitava nella nostra stessa strada, a un isolato di distanza, e andavano a lavorare insieme. Ma quando lui proponeva di prendere la sua di macchina, la risposta era invariabilmente la stessa: “Io su una Volkswagen non posso salire”. E così andavano sempre con la macchina di mio padre. La Volkswagen era l’auto che ricordava utilizzata da alti gradi, se ben ricordo delle SS, ma non ha mai voluto dire a me e mia sorella di più al riguardo. Soltanto molti anni dopo ho capito, leggendo alcune sue carte, che quell’automobile e quell’ufficiale comparivano quando alcuni corpi venivano gettati in fosse comuni. Ecco, erano quelle fossi comuni, il terribile sospetto che lo tormentava ancora: aveva visto qualcuno che si muoveva ancora? Era sicuro? Era questo che gli impediva di salire su una Volkswagen.

Di quelle fosse non ci ha mai parlato di persona, ma quando emergono nei conflitti di questo nostro tempo, queste fosse comuni mi riportano a questi racconti di tanto tempo fa. Per questo oggi cerco di trovare una lezione in questi ricordi, che compongo nella memoria in questi giorni come una bussola personale: mai condannare i popoli, mai giustificare i regimi e soprattutto mai considerarli amici, anche se ci sembra che altri nemici lo siano di più. È questa la debolezza umana in cui cadiamo e dalla quale dobbiamo prima o poi riscattarci. I veri amici sono altri. Così ricordare quel suo incubo mi aiuta a capire cosa significhino le fosse comuni di oggi, senza distinguere Sarajevo,  Srebrenica, Aleppo, Homs, Grozny, per stare solo al recente passato.

Per questo mi addolora sentire che oggi quanto ho appreso da bambino non ha punti di contatto con quanto dicono i vertici dell’Anpi e mi domando questa sigla cosa significhi quasi un secolo dopo. Anpi era una sigla di casa da noi. Come un’altra, Fiap, la Federazione  Italiana delle Associazione Partigiane di cui non ho più traccia. Per me il vero senso di questa sigla, o di queste sigle partigiane, è chiederci cosa volessimo dire affermando che la nostra Repubblica è nata dalla “resistenza”. Vuol dire che i partigiani erano perfetti? No, non credo fossero  perfetti.  Dunque hanno fatto errori? Per me nessuno può agire, soprattutto in frangenti così terribili come una guerra, senza mai sbagliare. Ma una cosa giusta c’era nel loro agire: “resistere”. Resistere per me non vuol dire, come ha detto la vice-presidente dell’Anpi, combattere perché si può vincere. I fratelli Rosselli non vinsero. Matteotti non vinse. La resistenza, come dimostrano proprio i fratelli Rosselli e Matteotti, non è solo armata, ma non può escludere anche questa lotta. All’esatto contrario di quanto dice il professor Orsini chi resiste è convinto che ci sia qualcosa di “più importante”. “Bella ciao” tutto sommato non ci parla di un uomo che saluta la sua compagna di vita per qualcosa di più importante? Cosa vuol dire dunque “resistere”? Non vuol dire non accettare di considerare che si può vivere in tutta tranquillità anche sotto occupazione, o dittatura?

Questa Resistenza è dunque il coraggio della rinuncia, del sacrificio, dell’adesione non soltanto ai propri convincimenti, ma anche al dovere di consentire l’espressione agli altri. Così nel corso del tempo ho cominciato a capire la libertà come un dovere verso gli altri più che un nostro diritto. Capire questo diviene più vero sbagliando, lasciandosi trasportare dalle passioni invece che dal rigore che se non è nostro è stato però dei nostri padri. Il 25 aprile ci dice questo a mio avviso, di resistere al male, che può nascondersi ovunque, a partire da noi stessi. Allora resistere vuol dire anche conoscersi, e cambiarsi. Senza mai cadere nell’illusione o nella scorciatoia di identificare il male con un popolo, ma con i regimi sì.

Mi sorprende in questi giorni leggere tanti rimandi all’articolo 11 della nostra Costituzione: “Figlia della resistenza”, armata e non armata, cosa dice quell’articolo? Cos’è quel ripudio della guerra di cui tutti parlano? Per la Costituzione italiana l’Italia “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; …” Dunque il punto è proprio questo “dovere” della libertà. Non tanto il nostro diritto, quanto il nostro dovere.

Il dovere di impegnarci per la libertà degli altri non ci mette contro, ma a favore! Nel 2003 non si discusse di come dovevano resistere gli iracheni, ma di come non dovevano invadere il loro Paese gli americani. La vera resistenza, ripensando ai miei ricordi infantili, l’ho capita come una resistenza per l’uomo e il mio dovere di essere per lui. L’ho capito sempre? Certamente no.

Anche per questo non posso negare che avrei voluto che fosse una voce della coscienza laica di questo Paese a dire quel che ha detto solo papa Francesco: “Disarma la mano che si leva contro il fratello”. È in quel “disarmare” chi offende la fotografia perfetta della resistenza come la capisco oggi. E così Francesco mi sembra uno dei pochi che sa ancora capire la parola “resistenza”. Resistenza per me fa rima con speranza, per questo non può avere paraocchi, vive in campi larghi, aperti, tutto può fare fuorché tessere le lodi della rassegnazione o dei regimi. Ma del cambiamento sì. A cominciare dal nostro cambiamento! Illudersi che a cambiare debbano essere solo gli altri è il modo migliore per non cambiare niente. E mi intristisce che si discuta di come un popolo debba difendersi invece di discutere di come aiutare un altro popolo a non offendere. Se le armi avessero consentito da parte di chi le dà una forte iniziativa diplomatica per porre fine al conflitto senza soccombenti, avrebbero svolto il ruolo che chi parla di diritto alla difesa gli assegna.

 

 

Il 25 Aprile e la resistenza che ci hanno insegnato i nostri padri

Il 25 aprile racconta di resistere al male, che può nascondersi ovunque, a partire da noi stessi. Allora resistere vuol dire anche conoscersi, e cambiarsi. Senza mai cadere nell’illusione o nella scorciatoia di identificare il male con un popolo, ma con i regimi sì. La riflessione di Riccardo Cristiano

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