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L’elezione del tredicesimo Presidente della Repubblica, per le modalità che ne hanno accompagnato lo svolgimento, è stato un duro colpo per il sistema politico italiano. Sul terreno morti e feriti: si potrebbe dire con un linguaggio certamente urticante, ma adeguato alla gravità della situazione determinatasi. Da quella vicenda, se si esclude Sergio Mattarella, richiamato a furor di popolo all’esercizio di quell’alto magistero, tutti ne escono sconfitti.

La necessità di difendere lo status quo ha portato all’immobilismo. E lo stesso presidente del Consiglio, che pure era stato più che cauto nel far balenare le proprie preferenze personali, ne esce, in qualche modo, toccato. Forse avrà la stessa forza di prima, ma in un contesto politico ben più sfilacciato, per cui operare nella giusta direzione, nella difesa dei grandi interessi nazionali, risulterà molto più faticoso e forse foriero di minori risultati.

Si dice che i grandi elettori abbiano voluto premiare la stabilità, contro le fumose e contraddittorie strategie dei propri leader. Più che vero. Lo stesso Mattarella nel voler ricevere i Capi gruppo di Camera e Senato, insieme ai delegati regionali, invece dei segretari di partito, ha contribuito ad avallare ulteriormente quest’interpretazione. Ciliegina sulla torta, dopo giorni e giorni bruciati in un tatticismo senza costrutto.

Ha indubbiamente vinto il Parlamento, ma il volere dell’Istituzione cammina con le gambe degli uomini. Di coloro che hanno mosso i passi per giungere alla soluzione finale: spinti da pulsioni, che è bene non dimenticare. Un pacchetto di mischia, costituito in prevalenza da quel terzo di deputati e senatori, che avevano la quasi assoluta certezza di non essere rieletti e, di conseguenza, hanno condotto la loro ultima battaglia.

I loro voti, a favore di Sergio Mattarella, sono stati una piccola marea, cresciuta giorno dopo giorno, fino a costringere i big ad abbandonare impossibili disegni. Lottavano, ovviamente, per la loro sopravvivenza. Cosa poco nobile: si dirà. Ma questo è l’ennesimo risultato di una stagione politica, in larga misura dominata dai 5 Stelle e dal loro livore contro un establishment, che ha naturalmente le sue responsabilità. Ma si trattava di una semplice pagliuzza rispetto alla trave negli occhi dei moderni apprendisti stregoni.

Ed ecco allora, per la nemesi della storia, le conseguenze più dure di quelle scelte generali. Il conflitto aperto tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio che sarà difficile ricomporre, al punto da far temere per un’inevitabile scissione. Che a sua volta, qualora dovesse verificarsi, vanificherebbe tutta la strategia di quei dirigenti del Pd – da Enrico Letta a Goffredo Bettini – ch’erano convinti che i 5 Stelle potessero essere una “nuova” costola della vecchia sinistra.

Sennonché il terremoto non ha risparmiato l’altra sponda. Come a sinistra, a destra le coalizioni non esistono più. Il conflitto tra la Lega e Fratelli d’Italia che, nei mesi precedenti, era latente ora è emerso in tutta la sua durezza. Giorgia Meloni si avvantaggia dell’essere l’unica forza di opposizione. Le sue mani libere le consentono di crescere nelle preferenze degli elettori. Ma resta il problema del che farne. Fosse ancora vivo Giuseppe Tatarella, sarebbe stato più facile dipanare la matassa.

E che dire poi di Matteo Salvini, uscito indenne dall’ultimo federale, ma solo perché la Lega resta l’unico vero partito leninista. La sua proposta di giungere alla costituzione di un Partito repubblicano ha nulla a che vedere con Ugo La Malfa e Giovanni Spadolini. Guarda invece a Donald Trump, dimenticando le profonde differenze tra i due sistemi politici. Quell’oceano che divide l’Europa dagli Stati Uniti. In passato era stato l’americanismo di Walter Veltroni a portare alla nascita del Partito democratico. Oggi Matteo Salvini sceglie, non sapremmo dire con quale costrutto, di muoversi sulla stessa lunghezza d’onda. Normali fibrillazioni dovute ai contraccolpi di una sconfitta, che salvo Giorgia Meloni, non ha risparmiato alcun leader: si potrebbe commentare.

Se l’Italia non fosse alle prese con tempi che si preannunciano difficili. Avremo – si e no – sei mesi di relativa normalità. Poi l’imminenza della campagna elettorale la farà da padrona. I segnali si colgono fin da ora: la Lega che non partecipa all’ultima riunione del Consiglio dei ministri. Il ministro Orlando che vagheggia nuovi “imponibili di mano d’opera”, seppure con il nobile intento di favorire donne e giovani.

E sullo sfondo la discussione sotterranea su un’ipotesi di nuova legge elettorale tendenzialmente proporzionale. Dovrà servire – si dice – per ricomporre i singoli partiti e movimenti. Come se questi potessero esistere a prescindere dalle profonde trasformazioni che hanno investito la società italiana. Difficile fare previsioni in merito. Una cosa, tuttavia, é certa. Nella Prima Repubblica quel poco di governabilità che si riuscì ad ottenere, era figlia della conventio ad excludendum, nei confronti del Pci.

Dimenticare questa circostanza può portare ad un sistema politico ancor più frammentato di quello che oggi è sotto i nostri occhi. Non sarebbe un bene, ma solo il nuovo capitolo della storia infinita della crisi italiana. Che non si capisce fino a quando potrà ancora durare.

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