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Con il no all’estradizione negli Stati Uniti, la revoca dell’arresto e il rientro in Iran di Mohammad Abedini inizia a comporsi il puzzle che ha portato alla liberazione di Cecilia Sala.

La diplomazia degli ostaggi, dunque, dimostra ancora una volta efficacia ed efficienza alla luce della sua natura asimmetrica. Da una parte: una giornalista (Cecilia Sala), detenuta per tre settimane in Iran con vaghissime accuse di aver violato le leggi della Repubblica islamica, una democrazia liberale (l’Italia) che si preoccupa della salute dei suoi cittadini. Dall’altra: un uomo (Mohammad Abedini) accusato dalle autorità statunitensi di aver fornito supporto ai Pasdaran e, assieme a un complice arrestato negli Stati Uniti (Mohammad Sadeghi), di associazione a delinquere per esportare componenti elettronici dagli Stati Uniti all’Iran, in violazione delle leggi statunitensi sul controllo delle esportazioni e sulle sanzioni; un’autocrazia (l’Iran) che non si cura di violare i principi del diritto internazionale e di utilizzare tutti gli strumenti – leciti e non – a sua disposizione per raggiungere i suoi obiettivi.

La vicenda conferma l’urgenza di strumenti – nazionali e internazionali – per proteggere i cittadini italiani, a partire dai giornalisti per via della natura della professione – per molti, come Cecilia una vera e propria missione. Perché è troppo rischioso confidare nella buona fede di Stati come Cina, Russia, Iran, Venezuela e Corea del Nord.

La scorsa settimana, Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, ha spiegato che da parte del governo “c’è la piena volontà di collaborare per abbassare questo tasso di rischio”. “In passato ho chiesto al sottosegretario [Alfredo] Mantovano di promuovere un incontro con i vertici della stampa per capire quali strumenti e regole di ingaggio adottare per proteggere le persone, per evitare situazioni come quella accaduta a Cecilia Sala”. Le responsabilità della sua vicenda, ha aggiunto, “non sono di nessuno per assenza di regole”. A tal fine sarà fondamentale la collaborazione di figure come di un giornalista quale Alberto Barachini, oggi sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri con delega all’informazione e all’editoria, e del prefetto Vittorio Rizzi, già presidente dell’Organismo di supporto al Centro di coordinamento per le attività di monitoraggio, analisi e scambio di informazioni sul fenomeno degli atti intimidatori nei confronti dei giornalisti, nominato nuovo direttore generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, organo incaricato dalla legge (la 124 del 2007) anche della diffusione della cultura della sicurezza nel Paese.

Ma la sicurezza all’estero non riguarda soltanto i giornalisti. Bensì tutti gli italiani. Ragione per cui, la diffusione della cultura della sicurezza è fondamentale. Così come l’adozione di strumenti dedicati considerato che il ricorso a queste pratiche da parte delle autocrazie non sembra destinato a ridursi. 

La scorsa settimana – per caso poche ore dopo la liberazione di Sala – il dipartimento di Stato americano ha pubblicato la sua strategia per prevenire le detenzioni arbitrarie fondata su tre pilastri: quello internazionale, ovvero un coordinamento con Stati alleati e like-minded su condivisione di informazioni e definizione di norme che aumentino il costo di queste pratiche; quello nazionale, con un impegno della diplomazia a informare i cittadini con indicatori specifici nei consigli di viaggio; quello che interessa il settore privato e la società civile, rafforzando la collaborazione con aziende, organizzazioni non governative, think tank, università e organizzazioni religiose per sensibilizzare sul fenomeno delle detenzioni arbitrarie.

Contrastare la diplomazia degli ostaggi. Lezioni dal caso Sala-Abedini

La recente vicenda evidenzia la necessità di strumenti per proteggere i cittadini italiani, giornalisti ma non solo, da detenzioni arbitrarie

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