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In una recente intervista a La Stampa, Giorgia Meloni a una domanda sul ruolo di garante che Mario Draghi dal Quirinale potrebbe avere su una futura sua premiership, ha invitato a non ragionare “come se fossimo una colonia e non una nazione sovrana”. Aggiungendo di trovare “spaventoso che l’Europa possa avere voce in capitolo su chi ci deve rappresentare”.

Probabilmente, la leader di Fratelli d’Italia non poteva non rispondere così, visto che si trattava di tenere un punto ideale a lei, ma direi a tutti gli italiani, molto caro. Un punto ideale, però. Il fatto è che nella realtà effettuale della cosa, per dirla con Machiavelli, l’Italia non ha la forza per esercitare quella sovranità che gli spetta in punta di diritto. E non per colpa altrui, ma soprattutto propria, per il debito accumulato in passato e per la scarsa produttività e crescita degli ultimi decenni: se oggi rivendicassimo quella totale autonomia dai fattori esterni che nel mondo ideale ci spetterebbe saremmo non solo abbandonati dagli altri Stati europei (che ovviamente ci “aiutano” in modo interessato e non per altruismo) ma sprofonderemmo anche sui mercati. E ciò data la nostra situazione finanziaria, reale ma anche percepita perché, come Machiavelli sempre insegnava, ciò che appare in politica (ma anche in economia e ahimè non poche volte anche in genere nella vita) è spesso più reale di ciò che lo è.

Con questo si vuol dire che il “vincolo esterno” è nei fatti e che, se la politica si fa tenendo fermo il “principio di realtà” e i rapporti di forza effettivi e vigenti, a noi non resta che metterci a lavorare per inserirci nel gioco e rendere più favorevoli a noi la situazione ed eventualmente le regole. Per fortuna anche l’Europa non è un monolite e si può provare a fare qualcosa di serio in questa direzione. Draghi per noi, da questo punto di vista, è una sorta di fideiussione, come è stato efficacemente detto. E in questo senso direi che si spiega perché i partiti hanno risposto positivamente all’appello lanciato nel febbraio scorso da Sergio Mattarella. Il quale però è agli sgoccioli del suo mandato, e ciò crea apprensioni e manovre di cui tutti hanno già piena contezza.

Intanto, si può dire che mai elezione di un nuovo Presidente della Repubblica italiano ha avuto tanta attenzione come quella di questa volta. Sostanzialmente, per due motivi, a mio avviso: da una parte, per il ruolo politico vieppiù accresciutosi del Capo dello Stato in una situazione di crisi sistemica; dall’altra, per la situazione di “dipendenza” sopra delineata. In secondo luogo, va osservato che quello che sembra il dilemma principale in questo momento, cioè se l’Italia uscirebbe rafforzata o il contrario qualora Draghi passasse al Quirinale, divide non solo noi, ma anche i politici e i commentatori esteri. Se è infatti vero che Ursula von der Leyen ha lasciato trasparire ieri a Milano una propensione per una soluzione Draghi al rebus del Colle, l’Economist ha detto molto più esplicitamente che il presidente del Consiglio deve restare dove è per continuare il suo lavoro.

La tesi dell’Economist, che non dimentichiamo è la voce più vicina a quei mercati finanziari dalla cui fiducia dipendiamo, è quella propria anche per lo più dei partiti politici italiani, ai quali spetta l’ultima parola. L’impressione, solo un’impressione per carità, è che la candidatura di Silvio Berlusconi, l’unica palese in qualche modo in questo momento, sarebbe più divisiva in Italia che all’estero. Dopo tutto, molta acqua è passata sotto i ponti da quando lo stesso settimanale londinese lo considerava inadatto a governare e al Cavaliere tutto si può imputare ma non di non essersi creato nel tempo una dimensione europeista e atlantista. La tranquilla adesione al Partito Popolare, che è poi uno degli assi su cui si regge l’architrave della Commissione europea attuale, farebbe forse il resto. Le mie sono solo suggestioni, ovviamente.

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