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C’è un vezzo dei tiggì, soprattutto estivi e soprattutto Rai, non so se ci avete fatto caso: in chiusura, quando in genere c’è la paginetta culturale e dello spettacolo (proposta in ordine inverso, in verità), da un po’ di tempo si celebrano i compleanni delle canzoni. In genere roba non proprio memorabile, che sembra messa lì per riempire, per contratto con i produttori, a completamento del palinsesto e a beneficio, sembrerebbe, dei telespettatori. Notoriamente raggruppati davanti allo schermo per tribù un po’ âge. No comment, per carità, solo che una tantum una proposta vorrei farla anch’io.

Si contano i sessant’anni di una canzone la cui freschezza, a sentirne gli accordi e a leggerne il testo, è rimasta intatta. Si tratta di “Dio è morto” scritta da Francesco Guccini nel 1965 e poi interpretata un paio d’anni dopo da Caterina Caselli – con un arrangiamento francamente inadeguato – e dai Nomadi, che la portarono al successo attraverso la voce possente e la ieraticità inarrivabile di Augusto Daolio.

Grande canzone, che riporta risonanze letterarie estratte dalla beat generation di Allen Ginsberg e addirittura da Nietzsche (vedi “La gaia scienza” e “Così parlò Zarathustra”). Nelle parole del giovane Guccini – appena venticinquenne – c’è un’accoglienza piena e quasi testuale dell’Urlo di Allen Ginsberg prendendo come incipit lo stesso “Ho visto” (“I saw” nella poesia) che parla di una generazione che stava preparando un mondo nuovo, che invocava un protagonismo inedito dei giovani, in chiave di contestazione al conformismo, all’autoritarismo, al militarismo, all’arrivismo, a tutti gli “ismi” pigri delle generazioni precedenti.

Guccini non era un ebreo americano del New Jersey come Ginsberg ma un modenese che aveva letto Nietzsche e dunque confezionò la sua canzone, con un omaggio al grande e controverso filosofo tedesco, che gli guadagnò una medaglia grazie alla censura dei supremi bacchettoni della Rai che temevano accuse di blasfemia se l’avessero mandata in radio. Ovviamente i Bacchettoni non ascoltavano la radio Vaticana che mandò e rimandò in onda il pezzo (sembrerebbe con un esplicito gradimento di Paolo VI) da cui sgorgava un fiume di speranza perché “se Dio muore è per tre giorni e poi risorge”. Aggiungendo che Dio risorgerà “in ciò che noi crediamo, in ciò che noi vogliamo, in ciò che noi faremo”, perché “questa mia generazione è preparata/ a un mondo nuovo e a una speranza appena nata”.

Sessant’anni fa questa canzone rappresentò l’inno italiano alla svolta epocale: per la prima volta i giovani cessavano d’essere “oggetto di diritti” ma rivendicavano di essere “soggetto di diritti”, senza subalternanze, senza imposizioni tollerate, senza destini predefiniti. I nuovi media, come la tv, la musica rock, il mito del viaggio fuori dai confini nazionali, che raccontava di una voglia di mondo senza precedenti, fecero da spinta straordinaria per rendere la beat generation un fenomeno globale che nel giro di qualche mese avrebbe incendiato tutto il mondo, dalla Praga sofferente nella Cecoslovacchia umiliata dall’Urss, alla Francia della rivoluzione studentesca alla Sorbonne, all’America dell’università di Berkeley, all’Italia, persino all’Africa dei giovani studenti somali. La musica avrebbe incollato tutto.

La dimensione di una canzone è una fonte impareggiabile perché non ha bisogno di mediazioni per arrivare, con le sue melodie, il suo ritmo e le sue parole (che, quando funziona la magia s’incastrano in modo perfetto) dritta al cuore e al cervello di chi l’ascolta. Si fa orma nella memoria per sempre perché sarà il connettore tra sentimento collettivo ed esperienza privata, in una ideale partecipazione al rito di un’intera generazione.

Non è una condizione frequente, deve funzionare tutto: testo, musica e rappresentazione di qualcosa che è nel sentimento popolare e che la canzone s’intesta per diventarne simbolo, senso, esperienza personale e collettiva al tempo stesso.

Guccini con i Nomadi di Augusto Daolio seppe scrivere un piccolo manifesto della generazione che inventò il protagonismo giovanile, maneggiando temi squisitamente politici: no alla guerra (allora lontana come il Vietnam), no all’ipocrisia piccolo borghese, no al consumismo sfrenato, no al carrierismo politico, no ai miti dell’eroe nazionale e della razza. Se qualcuno ci vede qualcosa che vale anche per oggi, beh, ci vede proprio bene.

Phisikk du role - I sessant’anni di “Dio è morto”, manifesto di una generazione

Guccini con i Nomadi di Augusto Daolio seppe scrivere un piccolo manifesto della generazione che inventò il protagonismo giovanile, maneggiando temi squisitamente politici: no alla guerra, no all’ipocrisia piccolo borghese, no al consumismo sfrenato, no al carrierismo politico, no ai miti dell’eroe nazionale e della razza. Se qualcuno ci vede qualcosa che vale anche per oggi, beh, ci vede proprio bene. La rubrica di Pino Pisicchio

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