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Con gli occhi del mondo ancora parzialmente puntati su Gaza, i leader arabi si stanno muovendo per finalizzare un piano postbellico elaborato dall’Egitto. Questo schema, che dovrebbe essere svelato il 4 marzo in un vertice straordinario della Lega Araba al Cairo e che sarà finalizzato con una serie di incontri iniziati venerdì scorso a Riad, nasce in risposta all’ipotesi lanciata dal presidente americano, Donald Trump: spostare la popolazione della Striscia per ricostruire il territorio dalle macerie e creare la cosiddetta “Riviera di Gaza”. Una proposta controversa, che ha generato polemiche e un’immediata reazione da parte delle potenze regionali, per prima l’Arabia Saudita, spinte a definire un’alternativa accettabile.

In un’intervista telefonica con diversi media fatta proprio venerdì, Trump sembrava accettare il piano egiziano, dicendo che non era riuscito a convincere l’Egitto e la Giordania ad accettare gli sfollati di Gaza, rendendo impraticabile la sua opzione preferita. Trump ha dichiarato: “Beh, paghiamo alla Giordania e all’Egitto miliardi di dollari all’anno [in aiuti esteri statunitensi]. E sono rimasto un po’ sorpreso di sentire che hanno detto di rifiutarsi di accettare i rifugiati di Gaza, ma l’hanno fatto… Ti dirò, il modo per poterlo fare è il mio piano. Penso che questo sia quello che può funzionare davvero. Ma non lo sto forzando. Mi siederò e lo consiglierò.”

L’Arab Plan e il ruolo (indiretto) di Trump

Trump ha di fatto riconosciuto, sebbene in modo sfumato (anche attraverso precedenti dichiarazioni incrociate del suo entourage), che la sua idea per Gaza non è realistica. Ma ha rivendicato che il suo intervento ha costretto i leader arabi ad assumersi la responsabilità della ricostruzione. Di fronte ai dinieghi di Egitto e Giordania ad accogliere sfollati palestinesi, il presidente continua l’atteggiamento transazionale. Un atteggiamento che può riflette una tattica precisa: provocare una reazione araba e costringerli a prendere in mano il dossier, dopo anni di immobilismo.

La chiave del piano egiziano: un governo senza Hamas né Anp

Il cuore della proposta araba è la creazione di un organismo di governo per Gaza composto da tecnocrati indipendenti, privi di legami con Hamas, colpevole dell’orrore del 7 ottobre, e nemmeno con l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) di Ramallah. Questo elemento mira a soddisfare le richieste di Israele, che rifiuta sia il ritorno dell’Anp, accusata di corruzione e ambiguità sulla sicurezza, sia ovviamente la permanenza di Hamas strutturata nella Striscia.

Tuttavia, questa soluzione potrebbe rivelarsi un punto debole. Hamas ha segnalato una disponibilità a non governare direttamente Gaza, ma non ha accettato di disarmarsi. Qui si cela il vero nodo della questione: senza un meccanismo chiaro per neutralizzare le forze armate del gruppo terroristico anti-israeliano, il piano rischia di fallire prima ancora di partire.

La questione della sicurezza e il rischio di un nuovo conflitto

Tel Aviv considera la smilitarizzazione di Hamas una condizione imprescindibile per la fine del conflitto. Il piano egiziano prevede una sorveglianza internazionale su arsenali e milizie, ma senza un reale programma di disarmo — anche perché Hamas non si mostra disponibile, consapevole che il disarmo significherebbe la fine dell’organizzazione. Il compromesso non convince il governo di Benjamin Netanyahu, che potrebbe opporsi al piano se lo riterrà inefficace nel garantire la sicurezza israeliana. Soprattutto, il primo ministro sa di non poter tirare troppo la corda con le componenti più radicali del suo governo, che minacciano l’uscita dalla maggioranza ogni volta che si accenna a forme di compromesso.

Anche la gestione della ricostruzione è un punto critico: il piano assegna il controllo degli aiuti agli attori regionali, escludendo Israele dal monitoraggio. Tel Aviv teme che questo faciliti il riarmo di Hamas, come già avvenuto con i finanziamenti onusiani (gestiti via Qatar) prima del massacro del 7 ottobre, quando i trasferimenti umanitari venivano anche usati per coprire carichi di armamenti.

Trump e il “rischio calcolato” sulla Riviera di Gaza

Al di là delle dichiarazioni pubbliche, la sequenza di eventi suggerisce che Trump abbia deliberatamente lanciato un’idea estrema – il trasferimento della popolazione e la “Riviera” – per scuotere gli attori arabi. Per anni, le monarchie del Golfo e l’Egitto hanno evitato di affrontare la questione di Gaza, cercando di mantenerla ai margini dell’agenda regionale. Ma l’attacco di Hamas di fine 2023 e la guerra che ne è seguita hanno reso questa posizione attendista insostenibile.

L’approccio di Trump ha quindi costretto i partner arabi a smuoversi su un dossier che continua a provocare l’instabilità regionale? L’ulteriore domanda ora è se il piano egiziano sarà sufficientemente solido per essere attuato – o se le contraddizioni interne ne segneranno il fallimento.

C’è lo zampino di Trump dietro il piano arabo per Gaza?

Dopo anni di immobilismo, i Paesi arabi pensano a un piano per stabilizzare Gaza e dunque la questione palestinese. Nel prossimo vertice della Lega Araba di discuterà del progetto, che la “Riviera” di Trump potrebbe aver smosso (più o meno consapevolmente)

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