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La notizia attesa da tempo è arrivata: gli Emirati Arabi Uniti invieranno una delegazione di alto livello in Iran, confermando un avvicinamento tra rivali strategici che sta procedendo da diverso tempo. Non c’è una data precisa, ma Anwar Gargash, il consigliere diplomatico del presidente emiratino, davanti a una domanda fattagli in conferenza stampa ha risposto: “”Prima è, meglio è, e spero che tutti i nostri amici ne siano consapevoli”.

Gargash quando parla è una sentenza. Le sue dichiarazioni sono sempre finalizzate a un messaggio, e in questo caso l’obiettivo non è tanto Teheran quanto Riad e Washington. Se — come spiegava su queste colonne Giuseppe Dentice (CeSI) — i sauditi soffrono la pesantezza del proprio ruolo e della propria struttura interna contro la maggiore agilità di azione degli emiratini, gli americani accettano per buona parte forme di stabilizzazione nella regione — attraverso le quali possono portare avanti il disimpegno strategico studiato — ma vogliono evitare eccessivi scatti in avanti (come successo con la Siria). Gargash sta dicendo qualcosa come: lo faremo, ma fidatevi di noi che lo faremo bene.

Il capo negoziatore nucleare iraniano, il viceministro degli Esteri Ali Bagheri Kani, ha incontrato Gargash e altri funzionari emiratini il 24 novembre: un meeting molto raro, sebbene è dal 2019 che gli Emirati hanno iniziato a impegnarsi per costruire relazioni con l’Iran. Quello era il periodo in cui le petroliere al largo delle acque del Golfo finivano sovente sotto attacco e nel settembre di quell’anno infrastrutture energetiche saudite furono pesantemente danneggiate da droni e missili lanciati dai ribelli yemeniti — che hanno rifornimenti militari dai Pasdaran, sebbene negati da entrambi i lati.

Emirati e Iran sono su posizioni opposte sia nell’interpretazione dell’Islam sia nelle ambizioni geopolitiche regionali. Ciò nonostante, entrambi percepiscono la necessità di sfruttare il momento positivo per avviare dinamiche distensive e dialoghi. L’obbiettivo cruciale è evitare escalation potenzialmente incontrollabili che potrebbero portare a un conflitto disastroso; pensiero tattico. Anche l’Arabia Saudita ha iniziato colloqui diretti con l’Iran ad aprile: Riad li descrive come “cordiali”, ma in gran parte esplorativi, distanti da soluzioni effettive.

“C’è un riconoscimento da parte degli iraniani che hanno bisogno di ricostruire i ponti con il Golfo. Lo stiamo raccogliendo positivamente”, ha detto Gargash. Teheran è in effetti isolata, il dialogo con le nazioni del Golfo — ostili alla Repubblica islamica — può essere anche utile come forma di contatto intermedio con Washington. D’altronde quei Paesi, tutti alleati americani sono infatti interessati a controllare le dinamiche di ricomposizione del Jcpoa, così come lo erano sei anni fa ai tempi in cui veniva redatto l’accordo sul nucleare iraniano. Contatti diretti con Tehran servono anche sotto questo quadro: se i partner regionali accettano di parlare con gli iraniani, Washington si muoverà alleggerito. Nello specifico degli emiratini, inoltre, le relazioni con l’Iran vanno vista anche dalla sponda israeliana: Abu Dhabi è un nuovo alleato di Gerusalemme grazie agli Accordi di Abramo e lo stato ebraico con comunica con la Repubblica islamica.

Abu Dhabi condivide ancora le preoccupazioni sulle attività regionali che l’Iran conduce attraverso milizie sciite collegate: gruppi ideologicamente ostili ai regni sunniti del Golfo e a Israele. Tuttavia vuole lavorare per migliorare i legami. Alla domanda se gli Emirati Arabi Uniti si stavano coordinando con l’Arabia Saudita sulle mosse iraniane, Gargash ha risposto che stavano mantenendo gli alleati regionali “nel quadro”. Il consigliere emiratino ha aggiunto che Abu Dhabi condivide la preoccupazione saudita per gli attacchi missilistici condotti dallo Yemen dal movimento Houthi, allineato con l’Iran, sulle città saudite. Una posizione logica.

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