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Continua lo spezzatino Huawei, che, stretta nella morsa statunitense, ha recentemente dichiarato un calo nelle entrate nel terzo trimestre del 38%. Prima gli smartphone targati Honor, ora i server. Vedere il colosso cinese vendere alcune sue divisioni bloccate dalle sanzioni americane imposte nel 2018 dall’allora presidente Donald Trump (e che il suo successore Joe Biden non sembra affatto intenzionato ad allentare) sta diventando sempre più frequente.

E dire che Eric Xu, uno dei rotating chairman di Huawei, ha recentemente definito la società come “il fornitore di servizi cloud in più rapida crescita nell’Asia-Pacifico”. Difficile però offrire servizi cloud senza server e data center. A meno di non puntare sul cloud. Ma questo mercato è dominato dalle americane Aws, Google Cloud e Microsoft Azure (che rappresentano assieme un 63% del mercato che sembra destinato a crescere) e dalla cinese Alibaba. Huawei, che a livello globale vale l’1% del mercato dei servizi cloud, non è neppure tra le prime cinque in patria: prima ci sono, oltre ad Alibaba, Tencent, Baidu, China Telecom e China Unicom.

Bloomberg ha rivelato che Huawei starebbe cercando acquirenti per la sua unità che si occupa di server. In prima fila ci sarebbe, ha ricostruito la testata, un consorzio di cui fa parte anche una società finanziata dal governo cinese. Qualcosa di simile era accaduto un anno fa con Honor, il marchio di smartphone di Huawei, ceduto a un consorzio guidato dal governo di Shenzhen.

Il tutto perché il colosso, accusato dagli Stati Uniti di spionaggio per conto del governo cinese, non può acquistare i processori x86 dell’americana Intel. Il mercato non offre neppure troppe alternative. L’anno scorso S&P Global Market Intelligence ha stimato tra il 90% e il 95% la quota di mercato di Intel nei processori per data center. E se non bastassero i processori, entra in campo la tecnologia. Amd, principale rivale di Intel, ha spiegato nel suo ultimo aggiornamento trimestrale alla Security and Exchange Commission, l’ente statunitense che vigila sulla Borsa, che “Intel è stata in grado di controllare gli standard dei microprocessori x86 e dei sistemi informatici e i benchmark e di dettare il tipo di prodotti che il mercato dei microprocessori ci richiede”.

Anche sotto questo aspetto il caso Honor è molto simile. Infatti, anche quella cessione era legata alle sanzioni statunitensi che hanno impedito a società americane come Qualcomm di fornire alcuni componenti, compresi i chip 5G, a Huawei.

Separare il business x86 può dargli più opportunità di crescita, nota Bloomberg. E di nuovo, fa scuola il caso Honor: la società ha spiegato che la sua separazione da Huawei gli ha permesso di riprendere i legami commerciali con i principali fornitori perché le restrizioni all’esportazione non si applicano all’azienda.

Ma potrebbe sortire anche un effetto contrario. Se il caso Honor non aveva suscitato troppe preoccupazioni negli Stati Uniti, la questione cloud potrebbe riaccendere i riflettori su Huawei. Soltanto qualche settimana fa il senatore repubblicano Tom Cotton e il deputato, anch’egli repubblicano, Mike Gallagher avevano invitato l’amministrazione Biden a prestare maggiore attenzione all’unità cloud di Huawei e ai rischi di esporre gli americani agli “occhi indiscreti” della Cina.

Dopo gli smartphone tocca ai server. Continua lo spezzatino Huawei

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