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Dall’Iran arrivano novità di carattere tutt’altro che positivo sulle condizioni di detenzione della giornalista Cecilia Sala, arrestata lo scorso 19 dicembre con la motivazione (non ulteriormente specificata) di violazione delle leggi islamiche. Secondo quanto si apprende dal Post, Sala è costretta a dormire sul pavimento della sua cella, e viene mantenuta in regime di isolamento completo da due settimane, durante le quali l’unica persona che ha visto è stata l’ambasciatrice italiana Paola Amadei, in un colloquio dalla durata di trenta minuti. Anche il pacco con beni di prima necessità consegnato dall’ambasciata alle autorità carcerarie iraniane non sembra essere stato consegnato. “Bisogna fare in fretta”, ha detto Sala durante un colloquio telefonico con i propri genitori avvenuto il primo gennaio. Come si sta evolvendo dunque la situazione? Formiche.net lo ha chiesto a Nicola Pedde, esperto di Iran e direttore dell’Institute for Global Studies.

Secondo lei è voluto questo duro trattamento nei confronti della giornalista italiana, così come la diffusione della notizia stessa, come una sorta di strumento di pressione da parte del governo iraniano?

Il carcere di Evin gode di una reputazione pessima già da prima rivoluzione khomeinista, già dai tempi dello Shah era conosciuto per le dure condizioni di detenzione degli arrestati, condizioni che purtroppo allarmano ma non stupiscono. Altri individui detenuti in quel carcere hanno riportato nel corso degli anni versioni abbastanza concordanti sul fatto che queste condizioni fossero non paragonabili agli standard dei Paesi occidentali. Difficile dire quale sia la natura del messaggio. Indubbiamente la notizia delle dure condizioni di detenzione non fanno che alimentare sempre più questo caso, e purtroppo anche qui credo che ci sia un po’ da parte di molti, me compreso, la reticenza a intervenire nel dibattito perché si rischia purtroppo di alimentarlo molto, rendendo più difficili poi impegni molto concreti delle autorità di governo per favorire la liberazione. Ma ci sono dei segnali che possono essere interpretati come positivi.

Quali sono?

Il primo è la scarsissima copertura mediatica che il caso Sala sta avendo sulla stampa iraniana in questo momento, il che lascerebbe indurre a ritenere che non se ne voglia, almeno in questa fase favorire l’estensione in ambito politico, cioè che non voglia essere creato un caso politico in Iran. Il secondo è la comunicazione del dipartimento per la stampa del ministero della Cultura, che ha diramato qualche giorno fa il comunicato in cui si dice che Sala è stata è stata arrestata per violazione delle leggi. E questo da un certo punto di vista stempera la gravità dei fatti, per cui anche se non sappiamo il capo di imputazione, però riconducendolo all’attività giornalistica stempera la gravità delle condizioni d’arresto e potrebbe aprire ad una maggiore flessibilità poi per le condizioni di rilascio. Chiaramente un reato commesso per non avere indossato l’hijab o per un’intervista scomoda indubbiamente si configura come un caso meno grave. In generale però la l’intera faccenda sembra purtroppo essere legata anche ad altro.

Fa riferimento all’arresto di Abedini?

Esattamente. E questo legame comporterebbe una difficoltà oggettiva nella risoluzione della questione, rispetto ad una situazione di detenzione di un giornalista slegata da altre dinamiche.

Secondo lei rimane concreta e percorribile l’ipotesi dello scambio tra Sala e l’ingegnere iraniano arrestato a Malpensa, oppure è già stata messa da parte come ipotesi? Secondo lei sarebbe un’opzione valida da perseguire

È molto difficile esprimere un giudizio sulla fattibilità dello scambio. Non ho visto nessun documento rilasciato dalla magistratura sull’arresto del cittadino iraniano, quindi non so esattamente quali siano i termini di questo arresto o le condizioni procedurali. Ovviamente la priorità per l’Italia è sempre quella di salvaguardare i propri cittadini e di riportarli a casa sani e salvi. Quindi qualsiasi ipotesi che rientri nell’ambito del percorribile sul piano giuridico in questo momento sarebbe auspicabile.  Chiaramente questo da un punto di vista di percezione interna, mentre da un punto di vista di politica internazionale i fattori assumono un connotato diverso. Soprattutto perché siamo nel periodo di transizione negli Stati Uniti, dove tra meno di venti giorni si installerà un’amministrazione completamente diversa da quella attuale. Sarà un momento di complessità generale nella gestione delle relazioni bilaterali, e questa vicenda si andrà a posizionare in mezzo a tali dinamiche.

Come giudica l’azione del governo e dell’apparato istituzionale nel suo complesso rispetto a questa vicenda?

In questi ultimi giorni si è alzato un po’ un polverone sulle presunte diatribe all’interno dell’apparato statale, soprattutto tra Esteri e intelligence. Ma credo che le nostre istituzioni hanno dimostrato in passato di avere una capacità indiscutibile di gestione di queste situazioni. Non è la prima volta che qualcosa di simile accade: quello di Sala è indubbiamente un caso delicato, ma ci sono state altre situazioni simili, sia dal punto di vista degli arresti sia dal punto di vista della cattura da parte di organizzazioni terroristiche, di gestione assolutamente indiscutibile da parte di Roma. Quindi onestamente sarei propenso a ritenere che anche le azioni intraprese in questa occasione siano quelle migliori e più opportune per la gestione del caso, così come in passato. La nostra diplomazia, l’intelligence, e tutti gli apparati della pubblica amministrazione credo giochino e abbiano giocato indiscutibilmente un ruolo proficuo.

Silenzio mediatico e segnali di apertura. Il commento di Pedde sul caso Sala

Secondo l’esperto, a Teheran “non si vuole creare un caso politico” sulla questione, fattore che incoraggerebbe maggiore ottimismo. Ma dal punto di vista internazionale il contesto è più complesso

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