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Che le elezioni amministrative non abbiano dato soddisfazione alla Lega, e in genere a tutto il centrodestra, è evidente. Quali ne siano i motivi più profondi, o meglio in che percentuali abbiano inciso gli uni piuttosto piuttosto che gli altri, è oggetto di analisi da parte di politici e commentatori.

Si intrecciano, in questa disamina, sia i fattori localistici, attenti cioè alle specificità di ogni singolo comune (o ente periferico in genere), sia quelli più specificamente nazionali che cercano di individuare tendenze evolutive di un quadro politico instabile e precario. E soprattutto di quel voto d’opinione che nei comuni più grandi ha certamente avuto un suo peso.

Se è abbastanza assodato che il centrodestra abbia sbagliato candidature, e non solo a motivo dei tempi di presentazione come ha sottolineato Matteo Salvini, e se altrettanto lo è l’indubbia divisione al suo interno fra forze di maggioranza e di opposizione a livello governativo, per il resto la domanda che sorge spontanea a via Bellerio è questa: stare al governo con Draghi ha aiutato o nuociuto al partito? E, più in concreto, bisogna continuare o no questa esperienza?

Una domanda che divide il campo leghista, ma anche una divisione che segna schizofrenicamente le parole e l’azione dello stesso segretario, costretto a interpretare ora l’anima governista e produttivista di ministri e governatori del Nord ora quella ribellista e ultrà (copyright Dagospia) di molti dirigenti e deputati, e in primis dei due economisti in chief che rispondono ai nomi di Albero Bagnai e Claudio Borghi (non a caso fomentati dai media, a cui prestano il fianco, sempre assetati di “sangue” e “fango” da gettare in prima pagina).

Anche se, per carattere ed esperienza vincente (nel recente passato), è portato a recitare soprattutto il copione barricadero, è innegabile che Salvini (che fra l’altro, se ne facciano una ragione i media di sinistra, è insostituibile perché è l’unico ad occhio ad avere oggi il carisma del leader nel partito) ha ben presente i rischi che corre nel tirare la corda fino a farla spezzare. Che il copione ribellistico, “sovranista” o genericamente “populista”, non sia più predominante nelle corde degli italiani, lo dimostra una semplice e superficiale lettura dei dati elettorali, e in genere lo stato d’animo diffuso e palpabile nel Paese.

Che poi il rischio grosso di una destra che segua quel copione sia di fare mera “testimonianza” e non incidere nelle politiche reali né oggi né in prospettiva domani, ghettizzati e resi inoffensivi in patria e fuori, è altrettanto razionalmente evidente. È vero che gli elettori non gradiscono le ambiguità e vogliono scelte nette (non è più tempo di partiti di “lotta e di governo”), ma pensare che avere voce in capitolo (per quanto piccola) sulla destinazione e l’uso dei fondi europei, sull’elezione del prossimo capo dello Stato e sulla possibilità di governare senza troppi intralci internazionali un domani, siano cosucce di poco conto o bazzecole ce ne corre. Lasciare poi Draghi alla sinistra, o ad una fantomatica “maggioranza Ursula”, sarebbe infine un peccato ancora più grave.

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Se è abbastanza assodato che il centrodestra abbia sbagliato candidature, e se altrettanto lo è l’indubbia divisione al suo interno fra forze di maggioranza e di opposizione a livello governativo, per il resto la domanda che sorge spontanea a via Bellerio è questa: stare al governo con Draghi ha aiutato o nuociuto al partito? E, più in concreto, bisogna continuare o no questa esperienza?

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