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E così pure Musk si è messo a fare il “centrista” nella terra del maggioritario più hard che il mondo liberaldemocratico conosca. La cosa è interessante a prescindere per il sapore di mission impossible che circonfonde l’impresa terzopolista negli Usa ed è dunque in grado di accendere la curiosità degli studiosi di sistemi elettorali. Ma andiamo per gradi.

In pochi mesi la politica americana ha preso la postura di un serial delle tv generaliste, con tanto di colpi di scena e ritmo sincopato che infila sorpresone tra una pubblicità e l’altra. Trump ovviamente è il protagonista assoluto che trascina il mondo da un pizzo all’altro dicendo battutacce, ribaltando a ora di cena quello che ha detto a colazione, forse divertendosi un sacco, ma con l’effetto surreale di vedere capi di Stato costretti a prenderlo sul serio e a battergli le mani ogni tanto per non farlo arrabbiare di più. A ruota tiene scena il coprotagonista della sua vittoria presidenziale, quel ragazzo stralunato ed esagerato, in tutto, a cominciare dai dollari, che si schierò con lui, facendo cose futuriste come la lotteria del voto e l’ingresso a gamba tesa dell’IA a sostegno del tycoon candidato alla seconda presidenza.

L’amore di Elon Musk fu travolgente, ma breve: appena in tempo per mettere il naso nelle stanze governative, stilare un programma anti-burocrazia federale che sembrava trarre ispirazione da principi cottarelliani, scambiare qualche malaparola con il capo supremo, mandare a quel paese governo e funzionari. Da ieri, infine, si fa fondatore di un nuovo soggetto politico e lancia il suo American Party, che si pone l’obiettivo, adoperando le mirabilie della sua intelligenza artificiale (battezzata Grok), di un 5-10% dei consensi elettorali, giusto quel che servirebbe (secondo lui) per fare l’ago della bilancia nel Congresso americano, rubacchiando 3-4 seggi al Senato e 7/8 alla Camera. Per ora. Forse andrebbe, però, ricordato, a beneficio di chi si appresta ad un così impegnativo progetto, qualcosa che ha a che fare col sistema politico americano che, nella sua estrema semplificazione, non ha mai amato troppo l’inserimento di terzi nel rigido bipolarismo che vige dal 1776.

Il sistema statunitense, infatti, si è costruito sulla polarizzazione estrema tra democratici e repubblicani, rispecchiata nella struttura sociale e territoriale degli americani, nettamente divisi tra aree metropolitane e provincia, tra costa e aree interne. Certo, quel rigido bipolarismo in passato ha conosciuto un qualche riequilibrio per riparare le fratture profonde prodotte dai conflitti, ma anche per guadagnare segmenti elettorali in bilico tra i repubblicani e i democratici, inglobando nei due partiti componenti “moderate”. Fin dagli anni cinquanta del secolo scorso, infatti, si affacciarono personalità, come il presidente repubblicano Eisenhower, che invocavano la “terra di mezzo”, per indicare un governo con forte sensibilità sociale. Né mancarono tentativi di formare un soggetto politico centrista dotato di autonomia nel corso della storia americana, senza, tuttavia, riuscire a produrre risultati capaci di lasciare una qualche orma nella memoria collettiva. Su questa scia si è posta da ultimo (risale al 2022) la nascita di Forward, un movimento dichiaratamente centrista promosso dall’ex candidato presidenziale Andrew Yang e dalla ex governatrice repubblicana del New Jersey Christine Todd Whitman.

Tuttavia l’ingresso nella politica americana di posizioni moderate si è manifestato più spesso non attraverso la formazione di partiti terzi, ma attraverso il protagonismo di personalità politiche portatrici di visioni coerenti con la postura moderata, ma all’interno dei due partiti tradizionali. Si pensi a John Mc Cain, candidato repubblicano che fu sconfitto da Obama alle presidenziali del 2008. Si trattò di un politico considerato portatore delle istanze più vicine a una sensibilità centrista e a un’ideale di autonomia che lo portarono a contrastare nel 2016 l’avvento di Trump; così come venne considerato un repubblicano con idee centriste in tema di economia sociale, anche Nelson Rockefeller, vicepresidente degli Usa con Gerald Ford. Sul versante democratico vicino a visioni centriste e più distanti dalle suggestioni radicali pur presenti nel partito dell’Asinello, può essere considerato negli anni Novanta Bill Clinton, che peraltro fu leader del gruppo dei Democratic Leadership Council.

Insomma: tradizione americana, il sistema politico e, soprattutto il sistema elettorale, cospirano contro l’iniziativa di Musk. Ma parliamo di un passato che non conosceva ancora le mirabilie dell’AI e non aveva mai conosciuto interpreti, diciamo così, originali della Costituzione, come Donald Trump. Dunque tutto può accadere.

Phisikk du role - La terra di mezzo di Musk

La tradizione americana, il sistema politico e, soprattutto il sistema elettorale, cospirano contro l’iniziativa di Musk. Ma parliamo di un passato che non conosceva ancora le mirabilie dell’AI e non aveva mai conosciuto interpreti originali della Costituzione, come Donald Trump. Dunque tutto può accadere. La rubrica di Pino Pisicchio

Non è tripolarismo, ma Musk può dar fastidio a Trump. L'American Party letto da Segatori

L’apparizione di Elon Musk sulla scena politica americana si presenta come un esperimento affascinante, quanto contraddittorio. Da amico e sostenitore del presidente Donald Trump a potenziale competitor. Sullo sfondo, uno scenario politico convulso nel quale i due soggetti prima strenui alleati, ora rivali, potrebbero mangiarsi fette di elettorato a vicenda. “È prematuro sostenere che la democrazia americana si stia trasformando in un sistema tripolare, ma è possibile che nel medio termine l’esperimento di Musk possa creare qualche mal di pancia all’inquilino della Casa Bianca”. Colloquio con il politologo Roberto Segatori 

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