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L’Italia è l’ottava nazione al mondo per ricchezza finanziaria. Mentre in molti riportano questo dato a suon di fanfara, c’è da riflettere sul confronto tra questa informazione e gli altri dati che abbiamo a disposizione sul nostro Paese.

Sempre più povero, sempre più diviso, con sempre più lavoratori al di sotto della soglia della povertà. Un divario che racconta di una condizione che richiede due elementi che nel nostro Paese ormai mancano da anni: una visione di lungo periodo, e azioni concrete che facciano capire la differenza tra visione e illusione.

Semplificando in modo brutale la questione, infatti, questa condizione racconta di un Paese in cui, tra asset industriali o imprenditoriali e asset finanziari risulta eccessivamente più conveniente investire nei secondi.

Ciò significa che, evidentemente, il sistema di creazione del valore finanziario risulta sempre più lontano dall’economia reale e che l’economia reale non è in grado di competere con i rendimenti da capitale che invece gli asset finanziari consentono con una certa normalità.

Ed è qui che si annida il nocciolo del problema. Se i rendimenti finanziari continuano ad essere sempre più interessanti, con profili di rischio sempre più sofisticati ed equilibrati, e se l’intera gestione della ricchezza privata viene demandata a strumenti e prodotti finanziari costruiti su una dimensione globale, è chiaro che chi possiede delle risorse economiche da investire percepirà l’attività imprenditoriale, industriale o di servizio, come un rischio troppo elevato a fronte di un rendimento non sufficiente a ripagare tale incertezza.

In uno scenario di questo tipo, che è molto più frequente di quanto si possa pensare, anche chi vorrebbe investire il proprio denaro con l’obiettivo di creare degli impatti reali si trova notevolmente in difficoltà. Esagerando un po’, ma neanche così tanto, si può dire che in tantissimi casi investire denaro nell’economia reale viene percepita come un’azione filantropica, più che un investimento in senso stretto.

A complicare ancor di più la questione è il livello di alfabetizzazione economica (e non solo finanziaria) del nostro Paese e la distribuzione della ricchezza sul profilo generazionale. Andiamo nel concreto: in Italia le fasce d’età che dispongono di maggiori risorse economiche sono quelle più adulte.

Persone che sono nate e hanno lavorato in un mondo molto diverso da quello attuale. In un mercato che tutto sommato aveva meno spinte alla concentrazione di ricchezza. Sono persone che hanno vissuto in anni in cui, a grandi linee, quando si facevano investimenti, oltre ad ottenere un profitto su tali investimenti si partecipava in modo attivo all’intera crescita dell’economia nazionale.

Apro un negozietto all’interno di un piccolo paesino, e più guadagno più spendo negli altri negozietti. È chiaro che la realtà era molto più complicata anche allora, ma si tratta di un esempio per provare a dare un volto umano a concetti che talvolta possono risultare astratti e incomprensibili.

Perché la storia di queste ricchezze è importante? Perché chi è cresciuto in questo modo non è detto abbia quella sensibilità che è necessaria a comprendere che rinunciando a parte dei rendimenti che potrebbe ottenere dagli asset finanziari può partecipare attivamente alla crescita dell’economia nazionale.

E nel frattempo, non solo il nostro Paese, ma anche l’Europa non fa altro che sostenere azioni che stimolino sempre più ad investire in asset finanziari, con l’obiettivo, tutt’altro che tacito, di indurre sempre più persone a trasformare i propri risparmi (quelli che hanno sul conto corrente) in investimenti.

Tutto giustissimo, sia chiaro. Ma sarebbe altrettanto giusto prevedere delle azioni che stimolino all’investimento nell’economia reale. Perché è nell’economia reale che si creano posti di lavoro, si crea gettito fiscale, e si creano le condizioni per incrementare i consumi o per continuare ad alimentare la delicatissima macchina del sistema previdenziale.

È aprendo nuove imprese che si sviluppano maggiori servizi, che possono incrementare il livello della concorrenza stimolando una crescita dell’innovazione e alimentando l’export. Certo, anche la finanza ha un ruolo importante per la crescita del Paese, ma questo ruolo lo gioca quando c’è una correlazione diretta con il tessuto produttivo e imprenditoriale.

Se compro azioni di una società sto alimentando in qualche modo le economie di tale organizzazione. Ma il mondo finanziario non è più così semplice. E le esigenze di tutela degli investitori, unite all’esigenza di creare profitti sempre più elevati, fanno sì che si costruiscano dei prodotti di alta ingegneria finanziaria, che se da un lato, come visto, amplificano le possibilità di ritorno economico, dall’altro diluiscono e di molto l’apporto finanziario all’economia reale.

Qui si ritorna alla visione: nel lungo periodo questa tendenza può risultare distorsiva e non produttiva per la nostra economia. Sicuramente può agevolare la crescita di capitali domestici, ma che partecipano soltanto in parte ai consumi interni, e che quindi riducono quella capacità di immettere nuove risorse economiche all’interno del nostro mercato.

A fronte di tali considerazioni, quindi, oltre ad ammettere l’esigenza di trasformare i risparmi in investimenti, sarebbe altresì necessario ammettere l’impellenza di realizzare investimenti reali.

Così, per passare dalla visione alle azioni, si potrebbe agire creando una serie di misure che siano in grado di stimolare le persone a fare investimenti in Pmi o nelle micro-imprese, sia partecipando attivamente all’economia reale, sia favorendo strumenti finanziari che abbiano come politica di investimento principale quella di garantire a micro imprese e a Pmi un maggiore afflusso di capitali, diversificando tali società per profilo di rischio, e creando dei pacchetti di tutela che mirino a stimolare dei comparti specifici di attività, senza che questi strumenti possano essere considerati come aiuti di Stato.

Parallelamente, la costruzione di servizi di alfabetizzazione economica reale, e non solo finanziaria, affidati a soggetti che siano portatori di interessi altri rispetto a quelle delle banche e delle società di gestione del risparmio, potrebbe favorire anche una consapevolezza etica dell’investimento, e stimolare così potenziali investitori e potenziali soggetti alla ricerca di capitali di rischio, a creare delle connessioni che oggi risultano appannaggio di grandi imprese e grandi soggetti istituzionali.

Bisogna sempre ricordare che il denaro è uno strumento. Non un fine. Se ci dimentichiamo di questo piccolissimo assunto, costruiamo una società che si limita a creare denaro dal denaro. Ma il denaro, da solo, non abilita lo sviluppo. Il denaro, da solo, è solo denaro.

Dal risparmio al rischio zero, così l’Italia ha smesso di credere in se stessa

Ormai le logiche dei mercati finanziari prevalgono sulla creazione del valore aggiunto e, generalmente, si è portati a investire in questo senso. Ma è aprendo nuove imprese che si sviluppano maggiori servizi, che possono incrementare il livello della concorrenza stimolando una crescita dell’innovazione e alimentando l’export. Certo, anche la finanza ha un ruolo importante per la crescita del Paese, ma questo ruolo lo gioca quando c’è una correlazione diretta con il tessuto produttivo e imprenditoriale. L’analisi di Stefano Monti

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