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Come racconta un corposo rapporto redatto dallo Speaker’s Advisory Group on Russia del Congresso americano, il presidente russo Vladimir Putin persegue lucidamente, e da più di 20 anni, la costruzione di una solida alleanza strategica tra Mosca e Pechino nei campi politico, militare e tecnologico. In questo ambito, le questioni energetiche rivestono una importanza primaria.

A questo proposito mi sia consentito un ricordo personale. Nel 1997, in qualità di consigliere internazionale del Sindaco di Firenze, partecipai ai festeggiamenti per gli 850 anni della fondazione di Mosca. All’epoca il sindaco di Mosca era Yuri Luzhkov. Alla cena di gala al Cremlino mi impressionò la presenza simultanea di centinaia di top manager di multinazionali provenienti da tutto il mondo. Mi colpì, in particolare, la presenza in prima fila dei vertici di tutti i colossi energetici mondiali.

In quel momento grandi erano le aspettative per i programmi di investimento in Europa e in Asia Centrale. Ma non soltanto. Si progettavano anche le prime iniziative congiunte da realizzare tra Russia e Cina (oleodotti, gasdotti e nuovi impianti di energia nucleare per usi civili).

Le celebrazioni dei 850 anni dalla fondazione della sua capitale non portarono fortuna alla Russia. L’anno successivo (1998) precipitò in una gravissima crisi finanziaria e nel caos più completo (lo Stato non era in grado di garantire un minimo di sicurezza pubblica).

Mentre la Russia attraversava una delle più gravi crisi della sua storia, gli Stati Uniti e l’Europa sviluppavano ottime relazioni con la Cina e la Casa Bianca premeva ufficialmente per il suo ingresso nell’organizzazione mondiale del commercio.

Nel 1997, durante la visita del presidente Jiang Zemin negli Stati Uniti, Bill Clinton aveva suscitato le ire di Henry Kissinger (che aveva intuito il pericolo di un asse di ferro Mosca-Pechino) dichiarando: “nel corso della Guerra fredda eravamo molto contenti quando Russia e Cina litigavano, ora non è cosi, le tre potenze devono collaborare”.

Come abbiamo già visto solo due anni più tardi, queste speranze di Clinton verranno clamorosamente smentite dalle decisioni strategiche di Putin, ma di questa svolta negativa non sembra esserci consapevolezza negli Stati Uniti e in Europa.

Per quanto riguarda l’Italia lo confermano, per esempio, le parole dell’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi: nonostante siano passati ormai diversi anni la sua posizione ripropone la stessa narrativa (illusoria) di Clinton. Oggi sappiamo che – dopo il breve disgelo nella metà degli anni Novanta – a Pratica di Mare (sia pure a livello embrionale)  una nuova “guerra fredda”, o – se non vogliamo usare questa formula – una nuova fase di contrapposizione tra democrazie e i regimi autoritari di Russia e Cina era già in fieri.

Ciò appare ancora più chiaro se riprendiamo il discorso sulla cooperazione sino-russa in campo energetico.

Occorrerà aspettare il 2001 perché Mosca riprenda in mano la materia. Come emerge da un documento declassificato redatto dalla Cia, il 14 dicembre 2001 Putin con la nomina di Aleksey Miller al vertice di Gazprom punta a realizzare una alleanza organica con Pechino per impedire l’intrusione di altre aziende straniere in Cina e soprattutto per aumentare il potere negoziale nei confronti degli Stati membri dell’Unione europea. Peraltro, sin dall’inizio (spesso per ragioni non nobili) le nazioni europee hanno affrontato in ordine sparso la partita energetica con il Cremlino.

Non c’è dubbio (anche se gli omissis della Cia non citano le fonti) che Gazprom e Yukos guardano alla Cina non solo per ragioni commerciali e per far fronte alle sanzioni, ma si muovono all’interno di una strategia politica più ampia. Il documento anticipa con rara capacità predittiva cosa accadrà tra Russia e Cina nel ventennio successivo, compresa la complessa questione della Mongolia.

Con la costruzione del primo oleodotto (Eplo nel 2011) e poi del primo gasdotto (Siberia1 nel 2019) i ricchi giacimenti della Federazione Russa saranno in grado di coprire buona parte del fabbisogno energetico necessario alla grande crescita economica del Dragone.

Un nuovo gasdotto (Siberia2) è in fase di progettazione molto avanzata e insieme alle estrazioni dal Kazakhstan contribuirà a ridurre la dipendenza energetica della Cina dall’Australia e dall’importazione di prodotti petroliferi da altri Paesi.

Senza dimenticare le complesse interazioni tra politica energetica sino-russa e i progetti della Via della Seta, Artico compreso. Mi limito a ricordare in proposito che nel matrimonio tra Pechino e Mosca non sono tutte rose e fiori; qualche spazio di manovra è possibile purché i Paesi democratici si muovano con unità di intenti.

Sotto questo profilo l’Italia, prima del governo Draghi, non ha dato il buon esempio. Per esempio, dalla fine del governo gialloverde nei palazzi romani gira una vulgata inconsistente: “Il problema sono le relazioni con la Cina, con Mosca nessun problema”.

Il caso del vaccino Sputnik è un ottimo esempio di un atteggiamento politico trasversale di questo tipo. Per inciso è un comportamento paradossale perché l’Organizzazione mondiale della sanità ha dato il disco verde al vaccino cinese e non a quello russo.

Che cosa ha unito la propaganda pro Sputnik del leader della Lega Matteo Salvini con quella del tutto analoga di Alessio D’Amato, assessore alla sanità della Regione Lazio, proveniente dai comunisti italiani? Il filo rosso che lega due politici provenienti da politici provenienti da posizioni così diverse è un atteggiamento molto diffuso nella politica italiana e nel mondo giornalistico. Mi riferisco alla persistente sottovalutazione della disinformazione proveniente da media russi e cinesi. Non siamo più negli anni Novanta dopo la caduta muro di Berlino.

L’ alleanza strategica tra Cina e Russia è ormai una realtà con cui la real politik deve fare i conti. Nessuno pretende che Antonio Tajani, Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Marcello Pera, Silvio Berlusconi o Gianni Letta chiedano di andare trovare Navalny o che indossino dei cartelli sandwich urlando a gran voce per la liberazione degli studenti o dei giornalisti dalle carceri di Hong Kong. Ma quando si parla di libertà civili a Mosca o Pechino il loro totale silenzio diventa assordante. E il discorso vale per una fetta non irrilevante della sinistra, Massimo D’Alema in primis.

In chiusura non posso non posso non chiamare in causa i giornalisti italiani. Il consolidarsi dell’asse Mosca-Pechino è una evidente minaccia alle libertà di informazione. Pochi ne parlano forse perché sui profili internazionali il provincialismo domina la scena.

Un caso interessante è rappresentato dalle reazioni al sostegno del presidente del gruppo Ppe al Parlamento europeo, Manfred Weber, a Berlusconi al Quirinale e Mario Draghi a Palazzo Chigi. A prescindere dalla fattibilità della proposta, perché i media hanno parlato solo di Berlusconi ignorando il sostegno a Draghi e l’auspicio che resti a Palazzo Chigi continuando a fare il suo lavoro? L’Italia purtroppo ha un brutto record di spesa pubblica cattiva dal Vajont ai dossier mafia, appalti sparsi in tutto il territorio nazionale, dalla ricostruzione dell’Irpinia post terremoto alle cattedrali nel deserto.

Alla spesa e al debito pubblico cattivo, si aggiunge l’insostenibile dipendenza energetica dalla Russia e digitale dalla Cina. Questo può spiegare una qualche sudditanza degli editori, ma non esime la classe politica dal fare bene il suo dovere. Non basta il protocollo di intesa tra Ragioneria dello Stato e Comando generale della Guardia di Finanza perché i miliardi del Pnrr producano una forte crescita economica del Paese.

Quel che è certo è che subendo le sofisticate campagne di influenza promosse da Mosca e da Pechino l’Italia andrebbe fuori strada. Basti pensare a quanto media russi come RT e Sputnik alimentino i canali Telegram no vax.

Come ha detto Weber, l’Italia con Draghi è “ritornata” sulla scena europea e internazionale. Perché, quando finalmente si intravede una luce in fondo al tunnel, mettere a rischio i nostri valori di libertà e un futuro di prosperità in nome di una amicizia con Putin?

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