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La vicenda afghana si dimostra terreno di slancio delle ambizioni internazionali di diversi attori, come il Qatar, mentre mette in difficoltà altri competitor di Doha come Riad o Abu Dhabi, che tuttavia cercano i loro spazi. Se i qatarini sono stati molto attivi, i sauditi hanno cercato di giocare su dinamiche meno pubbliche. La ragione: evitare che un ruolo sotto i riflettori potesse finire per portarsi dietro risvolti negativi. L’Arabia Saudita teme che il dossier Afghanistan/Talebani possa riaprire link delicati: i rapporti del regno con Osama bin Laden, gli attentati del 9/11. Oltretutto, la conquista di Kabul e l’avvio del nuovo governo hanno coinciso con una tempistica sensibile: l’anniversario ventennale dell’attacco agli Stati Uniti.

Il tema è scivoloso, la corte di Re Saud non poteva giocare un ruolo centrale né in questo momento né prima. Il Qatar ne ha approfittato da subito. Doha e Riad sono due realtà in competizione all’interno del Golfo Persico. L’avvicinamento prodotto dalla riconciliazione di al Ula ha interrotto l’isolamento ordinato dall’Arabia Saudita contro il Qatar nel giugno 2017, ma le dinamiche di concorrenza restano. E adesso i qatarini possono sfruttare quanto successo in Afghanistan come slancio per la propria agenda di politica internazionale. Al Udeid, la grande base fuori Doha dove ha sede il CentCom americano, è stata usata come scalo per le evacuazioni; la capitale dell’emirato diventerà un hub diplomatico per diversi paesi europei come l’Italia che vi sposteranno le ambasciate di Kabul (sfruttando anche il fatto che la città ospita un ufficio talebano); non ultimo, significativo che Filippo Grandi, l’Alto commissionario Onu per i rifugiati, faccia tappa a Doha prima di arrivare a Kabul (ulteriore segnale che il Qatar è il vero paese di confine con l’Afghanistan).

Contemporaneamente, il Qatar cerca di internazionalizzare la questione per proporsi a tutti come interlocutore, sfruttando nello specifico il dossier per poi ampliare i contatti verso i propri interessi. Il racconto di questa strategia in corso è segnato dal recente tour del ministro degli Esteri qatarino, Mohammed bin Jassim Al Thani, con tappe in Turchia, Iran, Pakistan, Russia e Afghanistan. Partendo da qui: Doha è in vantaggio sul dialogo con i Talebani, avendolo curato fin dall’apertura dell’ufficio diplomatico nel 2013, ma si dimostra attore completo facendo incontrare il ministro con il presidente dell’Alto consiglio per la riconciliazione Abdullah Abdullah e con l’ex presidente Hamid Karzai. E se le tappe in Turchia e Iran sono quasi obbligate (ad Ankara i qatarini trovano il moltiplicatore di forza in politica estera, a Teheran il vicino geografico del più grande giacimento di gas naturale del mondo), le visita a Mosca e Islamabad raccontano lo slancio.

Il Pakistan è territorio saudita, alleato da sempre (anche con fini strategici: leggi nucleare), attore chiave per la trattazione dell’Afghanistan e potenza regionale nell’Asia Centrale. Per Riad la porta pakistana è sempre aperta, ma Doha cerca spazi sfruttando la necessità saudita di passare sotto traccia e pensa al ruolo svolto dal Pakistan nei progetti centrasiatici della Cina. La Russia rappresenta un altro moltiplicatore: accolto da Sergei Lavrov, il ministro al Thani ha parlato di stabilità afghana e di affari regionali – dove col termine non si intende tanto le questioni centro-asiatiche, dove Mosca ha bisogno semmai dei qatari per portare investimenti nella propria sfera di influenza, ma più in generale anche quelle mediorientali, dove Doha chiede invece ai russi una sponda sempre utile (la Russia è percepita, e si fa percepire, ancora come una potenza militare).

Altro attore in inseguimento sono gli Emirati Arabi, che già nel 2013 provarono a strappare la sede talebana al Qatar. Abu Dhabi può agire più pubblicamente di Riad, e anche per questo ha dato rapidamente riparo all’ex presidente Ashraf Ghani (per non perdere il dialogo con una componente afghana), e adesso ha attivato un ponte aereo per inviare aiuti al paese. Si tratta di aiuti sanitari e alimentari, sono un’assistenza diretta alla popolazione di indiscutibile valore umanitario, ma contemporaneamente servono a dare respiro al governo talebano.

Il rischio è che infatti davanti alle carenze di generi di prima necessità il nuovo Emirato islamico dell’Afghanistan incontri il malcontento dei propri cittadini producendo condizioni di instabilità interna. Primo passo di una guerra civile che rischierebbe di moltiplicare esponenzialmente l’instabilità. Ora gli Emirati — che adesso hanno come obiettivo un generale riequilibrio del quadro regionale allargato — stanno anche aiutando gli americani a risolvere una rogna: i piloti afghani che sono scappati in Uzbekistan con le loro famiglie davanti all’avanzata talebana, saranno protetti tramite gli Usa ad Abu Dhabi, mentre i mezzi militari con cui sono fuggiti verranno fatti rientrare in Afghanistan (e dunque restituiti al gruppo jihadista che ora governa il paese).

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