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“Potremmo avere una sorpresa a febbraio o marzo prima delle elezioni sudcoreane, se Kim Jong-un vuole aumentare le pressioni per un presidente progressista che succeda a Moon”, dice ad Axios Bruce Klingner, un senior fellow alla Heritage Foundation ed ex vice capo divisione della Cia per la Corea.

Con la faticosa ricomposizione del dossier nucleare iraniano, la modernizzazione dell’arsenale atomico cinese (che “continuerà”, parola del ministro degli Esteri), una Corea del Nord ancora in cerca di una maggiore dimensione internazionale trasforma le dichiarazioni sulle armi nucleari in un piano d’azione di alto valore simbolico, di cui però è poco convinta.

Pyongyang è ancora un problema per Washington, che guida il gruppo dei Paesi con in dotazione l’arma strategica per antonomasia e su questo dialoga con le altre grandi potenze reali (Cina) o percepite (Russia). Quello nordcoreano è stato un dossier finora meno impegnativo per il presidente Joe Biden, che ha lasciato scorrere su alcune circostanze perché concentrato altrove, ma che Kim potrebbe infiammare di nuovo in ogni momento.

Anche perché niente è risolto su quel fronte, nonostante la presidenza Trump abbia avviato una scenografica campagna di contatti (orientati anche a ottenere un successo pre-elettorale, un accordo su cui poggiare la narrazione dell’abile dealer in grado di chiudere intese convenienti anche con i rivali).

Ebbene così non è stato, la distanza tecnica tra Kim e gli Stati Uniti è sempre la stessa, e ruota attorno al concetto di denuclearizzazione. Gli americani vogliono lo smantellamento del programma atomico nordcoreano, il satrapo asiatico vuole sfruttare le capacità acquisite (ha in mano ordigni nucleari, ormai è chiaro) per farsi inserire nella cerchia dei grandi e negoziare intese per il controllo degli armamenti — ma mantenendo la deterrenza. Kim è rimasto relativamente tranquillo durante il primo anno di Biden alla Casa Bianca, mantenendo le sue minacce e i suoi test missilistici ben al di sotto dei livelli di allerta visti durante la prima metà dell’amministrazione Trump: ma una Corea del Nord più tranquilla non è necessariamente meno pericolosa.

Nel 2022, anche in relazione al voto per la nuova presidenza sudcoreana — con l’attuale Moon Jae-in che ha da sempre lavorato per il dialogo, la successiva chissà — Kim potrebbe trovare un modo per rientrare nei punti in alto dell’agenda di Biden, magari avviando una nuova stagione di test, oppure pensando a qualche genere di charme-offensive simile alla precedente, o ancora un mix com’è successo nel recente passato. La Corea del Nord ha condotto test missilistici nel 2021, ma dal 2017 Kim non ha più testato un’arma nucleare o un vettore balistico intercontinentale, sebbene abbia mostrato nuovi missili avanzati e abbia compiuto movimenti minori. Circostanze che fanno appuntopensare che la quiete potrebbe non durare a lungo.

Kim ha un problema di ordine interno, legato al sommarsi della crisi correlata alla pandemia con le pressioni che il quadro d’isolamento sanzionatorio di cui soffre hanno imposto sul sistema economico nordcoreano. Condizioni che lo hanno portato ad essere insolitamente franco (per gli standard ultra oscurantisti di Pyongyang) lo scorso giugno, quando ha riconosciuto i problemi di approvvigionamento alimentare. La Corea del Nord è uno stato sigillato, con tutti gli scambi commerciali chiusi, compresi quelli con la Cina, per tenere fuori SarsCov-2.

È difficile valutare la profondità della crisi alimentare della Corea del Nord, anche se alcuni scambi di basso livello sembrano essere ripresi. Il percorso del Paese asiatico per uscire dalla pandemia sarà duro anche perché Kim ha rifiutato le offerte di vaccini. Sul regime ci sono ovvie pressioni, perché i cittadini soffrono. Biden non ha piani per un impegno presidenziale in stile Trump con Kim. Date le difficoltà di trattare con la Cina, la Russia e l’Iran, potrebbe vedere un “no news” sul dossier della Corea del Nord come una buona notizia.

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