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La buona notizia è che Commissione Europea ha appena dato un giudizio positivo sulla nostra finanziaria 2022 ritenendo che il documento rispetti sostanzialmente gli obbiettivi legati al Pnrr. Tuttavia, permane a livello europeo una certa preoccupazione per le conseguenze che diatribe politiche e calcoli elettorali potrebbero avere sulla puntale messa a terra del nostro Recovery Plan.

E allora, potrebbe essere il momento giusto per fare alcune riflessioni su ciò che accadrebbe in Italia nell’ipotesi in cui non riuscissimo a utilizzare al meglio gli oltre 200 miliardi del Pnrr o, comunque, fallissimo nel tentativo di agganciare la ripresa. Anche perché, in questo malaugurato caso, verremmo verosimilmente proiettati in uno stato di maggior isolamento e di maggior vulnerabilità rispetto alla situazione ante Covid.

La prima riflessione riguarda il “moltiplicatore di divaricazione”. Infatti, qualora gli altri Paesi riuscissero ad utilizzare le risorse del New Generation Ue come un booster per accelerare la ripresa post pandemia mentre l’Italia non ce la facesse, la divaricazione tra la nostra curva di crescita e quella degli altri partner europei si allargherebbe aggravando il nostro isolamento economico. Infatti, fino ad oggi, la pandemia ha fatto da livella tra economie virtuose ed economie meno virtuose imponendo come unico obiettivo la salvezza del sistema produttivo europeo.

Tuttavia, appena l’emergenza sanitaria cesserà di essere considerata una seria minaccia, subito si impenneranno le pressioni dei Paesi virtuosi per ridurre le misure di emergenza varate a livello europeo. Si attiverebbe così un moltiplicatore di divaricazione che aumenterebbe il gap tra i Paesi che sono riusciti ad agganciare una forte ripresa e quei Paesi (nell’ipotesi l’Italia) in ritardo nella ripartenza e quindi ancora bisognosi del supporto finanziario europeo. Emblematiche, a questo proposito, le pressioni dei Popoli del Nord sulla Bce per ridurre rapidamente gli interventi monetari di emergenza (Pepp – Pandemic Emergency Purchase Program) varati dalla Banca centrale per contrastare l’ emergenza sanitaria. La seconda riflessione riguarda, invece, il debito pubblico.

Infatti, qualora non riuscissimo a varare le riforme strutturali indispensabili alla messa a terra del Pnrr, non solo saremmo, come detto, più isolati in Europa, ma diverremmo anche più vulnerabili. Infatti, rischieremmo che il debito pubblico, lievitato a oltre 2700 mld a causa della pestilenza, ci scoppi in mano come un petardo. E questo per due motivi. Il primo è che, nel caso descritto, il nuovo debito buono (ossia destinato strutturalmente alla crescita) si trasformerebbe per incanto in ulteriore debito cattivo.

Di conseguenza tutti i riflettori europei tornerebbero ad essere puntati sul numeratore del rapporto debito/ Pil (sindrome del numeratore) mettendo in ombra il denominatore del rapporto (crescita e Pil). Va da sé che la inevitabile perdita di credibilità inciderebbe sul fattore F, ossia sulla fiducia di mercati ed investitori nella capacità dell’Italia di gestire il nuovo fardello di debito pubblico. Con ovvie ripercussioni su spread e spesa per interessi sul debito.

Il secondo motivo è che la Bce, sulla scia della Fed, verosimilmente dovrà ridurre entro il prossimo anno il suo programma di acquisto di titoli di stato di cui l’Italia è uno dei principali beneficiari. Di conseguenza, nell’ipotesi che il nostro Paese non riuscisse ad agganciare la ripresa, il governo potrebbe essere costretto a richiedere al sistema bancario di puntellare il debito pubblico come già avvenuto nel novembre 2011.

In quel delicatissimo momento, gli acquisti di titoli pubblici da parte del nostro sistema bancario raddoppiarono passando da 200 miliardi a oltre 400 miliardi. Il problema è che ottenere questo sostegno potrebbe essere oggi più difficoltoso rispetto al passato. Infatti, è molto probabile che i Popoli del Nord tornino alla carica ponendo come condizione per un accordo sull’ Unione bancaria europea la limitazione della quantità di titoli pubblici ospitabile nei bilanci delle banche.

Il tutto in nome di un presunto rischio sistemico derivante da una eccessiva commistione tra rischio sovrano e rischio bancario. Il terzo motivo è che, qualora sprecassimo l’occasione irripetibile offerta dal New Generation Ue, sarebbe impensabile per l’Italia invocare in sede europea politiche meno rigoriste al fine di stimolare la crescita.

Anzi, in occasione della rivisitazione del Patto di Stabilità prevista nel 2023, serviremmo delle ottime carte ai Paesi frugali. Carte che verrebbero usate sia per evitare ogni modifica in senso anti-rigorista del Patto di Stabilità, sia per affossare ogni traccia di debito europeo condiviso di cui il New Generation Ue costituisce, invece, il prototipo. Davvero una grande responsabilità per l’Italia.

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