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Qualcuno c’è rimasto male e ha inveito. Qualcun altro ha sorriso maliziosamente, immaginando nient’altro che strumentali convergenze con vista Quirinale. Nessuno ha plaudito. Eppure questa sorta di danza delle abiure incrociate tra Silvio Berlusconi e Giuseppe Conte e più in generale tra FI e l’M5S, che affronta anche temi delicatissimi come il garantismo, con Luigi Di Maio che fa ammenda per le accuse rivolte al sindaco Pd di Pavia, Uggetti, segnala che qualcosa nel profondo del corpaccione politico nostrano si muove, ed è utile provare a capire in che direzione.

La prima considerazione è che in agguato c’è sempre il perenne e inossidabile tic del trasformismo italiano. Cambiare fino a rinnegarle posizioni assunte anche pochi mesi o addirittura poche settimane prima è un vezzo che appartiene al Palazzo ed è il frutto di un secolare impasto fatto di convenienze, furbizie, scarso o nullo senso della coerenza. Al di là dei volteggi dei leader, lo confermano anche le centinaia di cambi di casacca avvenute in Parlamento dall’inizio della legislatura e che ha portato i Gruppi Misti, rifugio di chi ha lasciato il simbolo parlamentare con il quale era stato eletto, ad assumere proporzioni del tutto abnormi.

Ma naturalmente sono gli atteggiamenti dei big che fanno rumore e definiscono tendenze. Plateale il doppio riconoscimento che è avvenuto tra i due ex premier, con il Cav che ha individuato sintonie tra la spinta anti-politica della Forza Italia prima maniera e il populismo pentastellato, e Conte che ha riconosciuto che Berlusconi “ha fatto anche cose buone” (locuzione revisionista che può far scorrere qualche brivido nella schiena). Il fatto che sintonie e iniziative giuste non abbiano fatto scudo alla cacciata di entrambi da palazzo Chigi già di per sé meriterebbe una approfondita analisi.

Andiamo avanti. Se nei riguardi dell’ex avvocato del popolo il dubbio trasformista trova giustificazione avendo Giuseppi guidato senza batter ciglio due governi con maggioranze opposte, verso Berlusconi risulta meno fondato essendo stato il Signore di Arcore l’implementatore del bipolarismo italiano: sbilenco quanto si vuole e intriso di personalismo eppure identificativo di cinque lustri di vicenda politica. Perciò, fatta la tara trasformistica, è necessario andare più a fondo.

Il primo elemento riguarda Mario Draghi. L’assegnazione all’ex presidente Bce da parte di Sergio Mattarella dell’incarico di formare il governo ha portato alla formazione di una maggioranza di sostegno al tentativo di SuperMario che ha travalicato i classici schemi di contrapposizione tra centrodestra e centrosinistra: si è formata una coalizione di pseudo larghe intese che tra le altre cose ha costretto ad abbassare i ponti levatoi dell’ideologia e dell’estremismo e rinunciare almeno formalmente agli oltranzismi. È vero che ogni leader ha cercato di far valere le sue bandierine nei riguardi delle scelte del presidente del Consiglio. Ma è altrettanto vero che alla fine tutto si è ricomposto sia perché Draghi ha tenuto la barra dritta dritta perché uscire dalla maggioranza non sarebbe convenuto a nessuno.

E qui viene la seconda, più incisiva, considerazione. La pandemia soprattutto ma anche l’obbligo di non gettare al vento l’incredibile opportunità offerta dal Next generation Eu con annesse risorse, ha imposto un appeasement senza alternative. Costringendo tutti, perfino l’opposizione targata FdI a fare i conti con una realtà tanto semplice quanto invalicabile. Quale? Quella che non è (più) tempo di scontri belluini e di fatwe reciproche. Se si vuole mettere in sicurezza il Paese – ed è convenienza di tutti perché governare sulle macerie è poco agevole – è giocoforza spendersi in uno sforzo unitario che, solo, può garantire il successo finale. Indipendentemente dagli indicatori economici ultra favorevoli e del buon andamento del piano vaccinale anche se la recrudescenza dei contagi allontana facili ottimismi, consentire all’Italia di riprendere a correre è improbo se il Nord va contro il Sud, se i sindacati indicono scioperi generali e gli imprenditori si arroccano sui loro egoistici interessi, se gli schieramenti si fanno gli sgambetti e le forze di centro occhieggiano opportunisticamente di qua o di là. Sfrangiamenti e sfilacciamenti nella maggioranza sono visibili a occhio nudo. Ma altrettanto lampante è che se si spezza il filo unitario e si precipita in elezioni anticipate, il pericolo di intraprendere la marcia del gambero è forte: a chi gioverebbe?

C’è poi un’ultima considerazione da fare, forse la più importante. La sintonia che non annulla le differenze ma le coinvolge verso un obiettivo univoco ha l’occasione di esprimersi in un tornante decisivo per contrastare la deriva della crisi di sistema. Si tratta dell’elezione del nuovo capo dello Stato. Se prevarrà il rodeo delle candidature e la ridda dei franchi tiratori, l’Italia rischierà grosso. Se al contrario la convergenza che ha solidificato le larghe intese sotto Draghi prevarrà, magari già fin dal primo scrutinio, sarà il segnale che il riconoscimento reciproco e l’abbandono della demonizzazione segneranno i prossimi anni. Un risultato forse insperato. Ma fondamentale.

Tribù e trasformismo, se il Colle scuote il sistema. Il mosaico di Fusi

Qualcosa nel profondo del corpaccione politico nostrano si muove, ed è utile provare a capire in che direzione. Ma sull’elezione del nuovo capo dello Stato l’Italia rischia grosso. Se la convergenza che ha solidificato le larghe intese sotto Draghi prevarrà, sarà il segnale che il riconoscimento reciproco e l’abbandono della demonizzazione segneranno i prossimi anni

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