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Un F-15E statunitense, domenica 22 agosto, ha abbattuto un drone sui cieli della Siria. Il velivolo americano ha lanciato un AIM-9X Sidewinder contro il drone con ogni probabilità di fabbricazione iraniana. Secondo le informazioni diffuse dal Pentagono, l’UAV era “una minaccia” per il Mission Support Site Green Village, ossia la base con qualche centinaio di soldati americani che si trova a Sud di Deir Ezzor, nell’Est della Siria – area prossima al confine iracheno, cruciale sia per il controllo delle dinamiche connesse allo Stato islamico, sia per il contenimento dell’influenza iraniana (e russa) nel Paese.

La vicenda ha una circostanza quasi surreale se si considera che durante un’intervista alla ABC fatta pochi giorni fa, e incentrata soprattutto sul caotico ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan, il presidente Joe Biden aveva negato la presenza di truppe americane in Siria. Il commander in chief era rapidamente finito sotto il dubinking dei media americani, che sottolineavano come in totale in Siria ci sono circa 900 operatori delle forze speciali (Delta e Berretti Verdi) disposti in diversi basi attive, e sulla modifica di questo non ci sono in corso discussioni note.

A giugno, il dipartimento della Difesa Usa aveva espresso “profonda preoccupazione” per il personale statunitense in Siria e in Iraq dopo che i diplomatici e le truppe americane erano stati presi di mira in tre attacchi con razzi e droni. Uno di questi aveva ferito due militari proprio in Siria. Per Washington i droni sono diventati un problema di primo livello, perché rappresentano l’acquisizione di una capacità aerea di precisione da parte delle milizie sciite che l’Iran usa per approfondire la propria sfera d’influenza regionale.

Quello abbattuto potrebbe essere simile ai droni dei Pasdaran (o di qualche milizie a loro collegata) usati per colpire poche settimane fa il tanker collegato a Israele “Mercer Street”: un’operazione di sabotaggio lungo le rotte marittime da e per il Golfo Persico in cui per la prima volta si sono registrati due morti. Gli Stati Uniti avevano individuato l’Iran come responsabile di quanto accaduto e promesso rappresaglie (insieme a Israele, Regno Unito e Romania, queste ultime due coinvolte per la cittadinanza delle vittime).

Queste schermaglie a medio bassa intensità si sono intensificate in Iraq e Siria da quando l’amministrazione Trump ha messo in condizioni critiche l’accordo sul congelamento del nucleare iraniano Jcpoa, decidendo per l’uscita unilaterale. Un’intesa su cui tuttavia gli Stati Uniti e l’Iran hanno condotto negli ultimi mesi delicati negoziati per arrivare a una ricomposizione generale. Una volontà comune, sebbene con obiettivi e tinte diverse, dell’amministrazione Biden e della precedente presidenza iraniana.

Ora a Teheran però c’è un nuovo presidente, circostanza che insieme al ripetersi di attacchi sempre più spinti da parte dei Pasdaran, ha sostanzialmente messo in stallo i colloqui. Ricomporre quell’accordo multilaterale “non è qualcosa che possiamo controllare completamente”, ha detto Robert Malley in un’intervista esclusiva a Politico in cui ha citato la mancanza di impegno da parte degli iraniani. Malley, che nel 2015 aveva partecipato alla stesura del Jcpoa, ora è incaricato dalla Casa Bianca del dossier.

Da aprile i negoziati si sono svolti a Vienna. L’Iran aveva chiesto di evitare contatti diretti con i funzionari statunitensi, che a loro volta avevano scelto i diplomatici europei per la staffetta di comunicazioni (Russia e Cina, cofirmatari insieme a Francia, Regno Unito e Germania, erano chiaramente scelte non preferenziali). Le cose procedevano, ma a luglio, la vittoria di Ebrahim Raisi ha bloccato tutto, perché il nuovo presidente iraniano e il gruppo di potere conservatore che rappresenta all’interno della Repubblica islamica non hanno accettato che la chiusura di un’intesa fosse raggiunta dai pragmatici-riformisti del governo Rouhani uscente.

“Non ti aiuterei molto se ti dessi una percentuale”, ha risposto Malley a una domanda diretta sulle chance per ricomporre il Jcpoa, aggiungendo anche che le variabili sconosciute riguardano ciò che faranno e non faranno gli iraniani: “Noi siamo pronti a riprendere i colloqui, cosa che non faremmo se non pensassimo che [un accordo] non fosse possibile”. Però è giusto avere il punto interrogativo, ha detto l’americano, “perché se non hai ancora raggiunto [un accordo], i colloqui si trascinano. Se i progressi nucleari dell’Iran progrediscono e l’Iran continua a compiere passi provocatori sul nucleare, senza nemmeno menzionare le loro provocazioni regionali […] ciò spinge nella direzione opposta”, cioè lontano da un accordo.

Alla luce delle evoluzioni sul campo come l’abbattimento del drone iraniano, la ricomposizione del Jcpoa “non è un affare fatto”, per dirla come Malley. Sebbene un’intesa potrebbe significare l’avvio di una distensione a potenziale ricaduta molto più ampia (sia perché potrebbe non limitarsi solo al nucleare, con effetti positivi sul quadro regionale). Ma Malley spiega anche che “dobbiamo essere preparati per un mondo in cui le intenzioni dell’Iran non sono quelle di tornare al [Nuke Deal], almeno non in modo realistico”. Qualcosa su cui Israele, molto scettico sull’accordo in sé, ha già esposto agli Stati Uniti, chiedendo di essere preparati e di coordinarsi.

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