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Secondo Sir George Iain Duncan Smith non c’è “mai stata un’epoca d’oro” tra Regno Unito e Cina. Così diceva l’ex leader del Partito conservatore, l’estate scorsa, intervistato da Formiche.net dopo il dietrofront con cui il governo di Boris Johnson sbarrò la strada al 5G di Huawei e Zte. Il politico di lungo corso, con tre decenni alla Camera dei Comuni alle spalle, negava l’esistenza di un feeling particolare tra l’esecutivo di David Cameron e del fidato cancelliere George Osborne – in cui lui era ministro del Lavoro e delle pensioni – e la Cina. “Penso in realtà ci fosse una visione naïve: che ci fossero molti soldi da guadagnare e i governi hanno quindi chiuso gli occhi davanti agli abusi delle aziende e del governo cinesi”, spiegava festeggiando la svolta di Londra sul 5G come “la fine di un periodo di ingenuità”.

Come più volte notato su queste pagine, quella decisione segnò l’inizio di un nuovo approccio in Europa sul ruolo dei cosiddetti “fornitori ad alto rischio” nella rete di quinta generazione. Ma fu anche, come spiegato dall’ex leader tory, il primo passo verso una revisione di Londra dei suoi rapporti con Pechino.

Inoltre, nei mesi scorsi i rapporti tra Londra e Pechino si sono ulteriormente raffreddati dopo le tensioni su Hong Kong, Xinjiang, Taiwan ma anche sull’origine del Covid-19. Il ministro degli Esteri Dominic Raab aveva spiegato che il Regno Unito non più fare “affari come al solito” con la Cina.

È in questo scenario che va letta la decisione del governo Johnson, rivelata dal Financial Times, di cercare il modo di escludere China General Nuclear da alcuni progetti energetici già programmati. Si tratta del colosso statale cinese del nucleare, che figura nella black list degli Stati Uniti dal 2019, e che è già coinvolto nella centrale di Hinkley Point. La stretta avrebbe impatto sul progetto della nuova centrale nucleare Sizewell, nel Suffolk, un impianto da 20 miliardi di sterline a cui Cgn lavora con la francese Edf, e su quello di Bradwell-on-Sea, nell’Essex.

“Dato l’approccio che abbiamo visto su Huawei” il governo “non lascerà che una società cinese costruisca una nuova centrale nucleare”, ha spiegato una fonte al Financial Times, che riporta anche come la rimozione di Cgn da Sizewell potrebbe permettere a Edf di attirare investitori nordamericani nel progetto.

La reazione cinese alla rivelazione del quotidiano non si è fatta attendere. Zhao Lijian, portavoce del ministero degli Esteri, ha detto che “i britannici dovrebbero seriamente favorire un ambiente commerciale aperto, equo e non discriminatorio per le aziende cinesi”. Poi quello che è un mantra della diplomazia cinese: “È nell’interesse di entrambe le parti” cooperare per “il beneficio reciproco e un risultato win-win”.

Come aveva spiegato Huw Davies, deputy lead negotiator della Cop26, a Formiche.net nei mesi scorsi, “l’energia nucleare sarà una parte importante del mix di energia pulita per molti Paesi, compreso il Regno Unito”. Infatti, nel Libro bianco sull’energia, pubblicato a dicembre, il governo britannico ha identificato il nucleare come una via per permettere al Paese di quadruplicare la produzione di elettricità pulita, necessaria per raggiungere l’obiettivo di zero emissioni nette entro il 2050.

Non deve dunque stupire che, in questa fase di transizione ecologica e competizione geopolitica, il governo di Johnson stia cercando il modo di mettere al sicuro le sue infrastrutture critiche, a partire da quelle fondamentali nel processo verso un mondo decarbonizzato.

Ma non è l’unico settore cruciale su cui Londra valuta una stretta. Basti pensare a quanto accaduto a Newport Wafer Fab (Nwf), azienda leader nella produzione di chip con sede a Newport, in Galles, recentemente acquisita da Nexperia, società olandese ma partecipata al 100% dal colosso cinese dei semiconduttori Wingtech. Per Ciaran Martin, ex direttore del National Cyber Security Centre intervistato dal Telegraph, l’affare rappresenta una minaccia agli interessi britannici più grande del coinvolgimento di Huawei nel 5G. Sul dossier il primo ministro Johnson ha messo il suo consigliere per la sicurezza nazionale, Sir Stephen Lovegrove, che “sta esaminando questo caso”, ha spiegato un portavoce di Downing Street nei giorni scorsi. “Non esiteremo a intraprendere ulteriori azioni se necessario”, ha aggiunto.

Da una parte c’è un accordo da 63 milioni di sterline che ha salvaguardato quasi 500 posti di lavoro. Dall’altra ci sono le preoccupazioni per la sicurezza nazionale che hanno alimentato i richiami al primo ministro, anche dall’interno del suo stesso partito. La commissione Affari esteri dei Comuni, presieduta dal tory Tom Tugendhat, un falco anti Cina, ha chiesto di agire in fretta e con decisione. E anche i conservatori gallesi, pur davanti ai posti di lavoro tutelati, non hanno taciuto i loro timori. Nei prossimi giorni è attesa da la decisione finale. Sarà il prossimo paletto britannico alle mire cinesi? 

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