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Dunque eravamo su Scherzi a parte. Già, era tutto finto: l’intemerata di Giancarlo Giorgetti contro il Capitano, i riferimenti a Bud Spencer e quel  “continuavano a chiamarlo Salvinità”; l’Europa lontana e vindice; altro che Palazzo Chigi fino al 2023: piuttosto Draghi da spedire al Colle e poi di corsa alle urne. Tutto di cartapesta, tutto un equivoco. Per cui Giorgetti (”Non so gestire i rapporti con i giornalisti”) fa autocritica come nei processi staliniani (e in fondo il Carroccio non è un partito del Capo punto e basta?); il leader lo perdona ma lo confina ai domiciliari nel suo ministero e stia buono lì; l’alloro sulla testa di Matteo è ben saldo come una corona; “alla fine decido io” il cartiglio da sbandierare verso gli incerti ed inquieti.

Un happy end in stile 2.0 che va benissimo a chi adora – anche e soprattutto dal punto di vista mediatico – gli esiti zuccherosi. Forse però la realtà è un po’ diversa. E’ vero che fino all’elezione del successore di Sergio Mattarella non succederà niente e che il summit delle idee leghiste di inizio dicembre sarà solo l’occasione per mettere a fuoco la strategia per il Colle e rinsaldare le truppe poiché sfrangiamenti in quella delicatissima partita che potrebbero gettare ombre sulla leadership di Salvini non sono ammissibili.

Però dentro la Lega le discussioni (e le contrapposizioni) sul futuro non sono affatto terminate. Anzi, si può dire che è in atto un nuovo inizio. Il cui traguardo è palazzo Chigi ma stavolta SuperMario non c’entra, o quasi. Il punto vero riguarda le elezioni politiche, quando si terranno, gli equilibri che ne scaturiranno e chi dovrà entrare nella stanza dei bottoni per dispiegare il potere di governo. Salvini è quello che porta i voti, non c’è dubbio. Ma proprio i voti sono diventati un problema.

Dal 34 per cento dei consensi (effettivi) al 19 scarso di quelli presunti (nei sondaggi) lo iato è grande e non aggirabile. Come pure dalla richiesta di elezioni subito con “i pieni poteri” all’appoggio al governo di Draghi “dove non ci stanno a sentire” il balzo è enorme e ancora non è chiaro se il leader del Carroccio lo considera un investimento a lunga scadenza come Giorgetti oppure una blue chip di cui liberarsi al più presto anche a costo di rimetterci.

Ma, appunto, la discussione più importante riguarda palazzo Chigi. Nelle preferenze degli italiani, il centrodestra continua ad essere in vantaggio. Vuol dire che quando si apriranno i seggi la possibilità che quello schieramento, ancorché rabberciato e coeso come la marmellata, possa prevalere e indicare un possibile presidente del Consiglio, rimane viva. Ecco dunque: c’è da capire chi sarà il prescelto.

Nel 2018 c’è stato il ribaltone: Lega con più voti di Forza Italia e Fdi, Salvini davanti ai microfoni al Quirinale a spiegare la linea e Berlusconi dietro a compitare sulle dita della mano come un suggeritore e non più il protagonista. Poi Matteo si è preso quella dote e l’ha portata in omaggio al M5S per farci un governo assieme. Com’è andata a finire lo sanno tutti.

Adesso quello schema non è replicabile, se non altro perché gli alleati di un tempo sono diventati i più fieri avversari di ora. E poi, appunto, c’è palazzo Chigi, senza più outsider come Giuseppi ad insidiare la poltrona. Ma Salvini ci si può sedere sopra, bastano gli eventuali (ma fuggevoli, non più sicuri come un patrimonio inalienabile) voti o serve anche un di più, un’aura di autorevolezza e prestigio? E come si conquista?

Per il ministro dello Sviluppo economico la via principale passa per un rapporto chiaro e forte con Bruxelles e i gruppi politici che guidano il convoglio europeo.  Per Salvini invece quel treno sterza a sinistra ed è destinato a finire su un binario morto. Meglio l’alternativa di Orbán e Mateusz (tra omonimi ci si capisce meglio) Morawiecki, leader di Paesi che hanno subìto il giogo sovietico e non ne accettano altri, neppure se arrivano dalla Ue.

Ecco, si può governare un Paese che dell’Europa porta le stimmate di fondatore alleandosi e andando a braccetto con chi la vuole, se non azzerare, quanto meno ridimensionare? Per Giorgetti e i “draghiani” della Lega la risposta è no. Per Salvini è non solo sì, ma va praticata fin da subito. Il vero braccio di ferro, la faglia che taglia e spacca il partito delle camicie verdi sta qui. Chissà come finirà. Un’avvertenza: in questo caso il lieto fine non è contemplato.

Lo scontro Salvini-Giorgetti arriverà fino a Palazzo Chigi

Salvini potrà mai diventare premier solo grazie ai voti, peraltro in calo, o serve anche un di più, un’aura di autorevolezza? Per Giorgetti, si può conquistare cambiando strada in Europa. Il vero braccio di ferro, la faglia che taglia e spacca il partito delle camicie verdi sta qui. Il lieto fine non è contemplato, nel mosaico di Fusi

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